giovedì 23 febbraio 2017

PEOPLE_Richard Avedon




Fotografo americano, tra i più grandi nel panorama della moda, ha avuto il grande plauso di rendere i modelli delle sue immagini – scattate a partire dagli anni ’40 – attori di scenari inusuali per le abitudini dell’epoca: zoo, circhi, piste di lancio, discariche di rifiuti. Antesignano di quello che poi diventerà il moderno concetto di redazionale di moda, Richard Avedon fa uscire il set dallo studio, ambientandolo in luoghi sempre diversi, originali e, proprio per questo, fascinosi. Uno sguardo visionario sulla fotografia, autenticato dall’incoraggiamento dei suoi soggetti a muoversi il più liberamente possibile, in modo da ottenere immagini spontanee, veritiere e di grande naturalezza.
Dopo aver studiato filosofia alla Columbia University, parte per la guerra. Al suo ritorno, nel 1944, inizia a occuparsi di fotografia e conosce Alexey Brodovitch, il direttore artistico di Harper’s Bazaar, per cui inizia a lavorare nel 1945. Un’atmosfera dai toni intellettuali, quella di Brodovitch, dalla quale Avedon non si distacca più.  La collaborazione con la rivista prosegue anche con i successivi direttori, sino al 1984: un lavoro portato avanti in tandem – dal 1966 al 1990 - con Vogue.
Avedon nelle sue fotografie punta l’obiettivo sulla “geografia emozionale” del viso e del corpo; utilizza particolari ottiche grandangolari, profonde angolature e luci stroboscopiche. Tratto distintivo del suo stile, lo sfondo: quasi sempre bianco, svuota l’immagine, per privarla di qualsiasi riferimento.
Ha scoperto e lanciato le modelle più importanti, da Dovina a Suzy Parker a Veruschka, da Twiggy a Penelope Tree, passando per Lauren Hutton e Benedetta Barzini.
Al grande pubblico il suo lavoro è balzato agli occhi attraverso campagne pubblicitarie e spot televisivi per Revlon, Chanel, Dior e Versace nonché per oi calendari Pirelli del 1995 e del 1997. Devoto alla novità in tout court intesa, è stato il primo a fotografare un uomo per la copertina di una rivista femminile: si trattava di Steve McQueen.

Innumerevoli i suoi scatti così come le rassegne a lui dedicate: nel 1974, i suoi ritratti del padre Jacob Jsrael al Metropolitan of Modern Art (Moma); nel 1978, una retrospettiva delle sue foto di moda al Metropolitan Museum of Art di New York; nel 1994, invece, una grande mostra itinerante, intitolata Evidence, 1944-1994.

lunedì 20 febbraio 2017

ABOUT_Il pizzo



Pizzo, trina o merletto. Quale che sia l’appellativo utilizzato non cambia molto nell’immaginario collettivo, che lo vuole come una delle lavorazioni tra le più seducenti: intrigante ma raffinata, sensuale ma elegante. Un gioco studiato di rivelato e non svelato, che molto dice ma ancora di più evoca, che scopre sussurrando e copre con garbo e delicatezza. Il pizzo appare come una sorta di continua antitesi tra estremi che si respingono per attrarsi, quasi a suggellare la giusta convivenza di due anime in apparenza distanti e differenti, sulla scia di un’iconica commistione tra sacro e profano che, se ben riuscita, è in grado di dare strabilianti effetti di charme e incanto.
Tecnicamente parlando, le categorie di pizzo sono due: quello eseguito con l’ago (evoluzione del ricamo) e quello al tombolo (figlio della passamaneria). Per tre secoli, i pizzi sono stati eseguiti rigorosamente a mano, assurgendo a concreta manifestazione di una minuziosa abilità sartoriale, progenitrice della couture tout court, come ancora oggi la intendiamo. Solo all’inizio dell’800 compaiono le prime macchine, a Nottingham in Inghilterra, a opera di John Hethcoat e in seguito di Leavers, che battezzerà il pizzo oggi conosciuto come “pizzo di Calais”.
Da un punto di vista storico, il pizzo compare sulla scena del tessile e, di riflesso, del costume, relativamente tardi, nella seconda metà del ‘500. All’inizio due sono i poli di debutto: Venezia - all’epoca crocevia obbligato per ogni tipo di merce – per quanto concerne il pizzo all’ago e le Fiandre per quello al tombolo. Prima di allora, per ottenere l’effetto di trasparenza (nel pizzo dovuta alla struttura leggera con piccoli fori e vuoti) si ricamava un pezzo di lino a festoni, lo si tagliava e si tiravano i fili. Da una simile constatazione e invertendo il procedimento, ecco l’idea geniale: invece di distruggere il tessuto, si creava una griglia su cui ricamare.
Fino al ‘700 il merletto fu utilizzato anche dagli uomini per i jabot e i polsini arricciati che fuoriuscivano dalle giacche. Con i primi dell’800, diventa esclusiva del guardaroba femminile, usato per abiti, giacche, velette, ombrelli, scialli nonché come guarnizione di biancheria e accessori. Da Venezia e dalle Fiandre, conquista il mondo intero: si diffonde subito in Francia poi in Inghilterra, Spagna e Svizzera. In Asia e America del Sud fu probabilmente importato dai missionari. Fra i merletti più famosi ad ago, ci sono quelli di Alençon e Argentan in Normandia, fra i pizzi a tombolo, lo Chantilly, il Valenciennes e il merletto di Burano o pizzo veneziano. L’arte del pizzo a mano è ancora insegnata in molte scuole specializzate, mentre musei di tutto il mondo hanno ricche collezioni di merletti antichi. Uno dei più famosi fabbricanti è Riechers-Marescot a Calais, che lavora per i maggiori couturier del mondo.
Negli anni il pizzo ha contraddistinto le note più glamour della moda per la sua duplice anima grazie alla quale, mentre suggella una provocante sensualità, evoca un’eleganza raffinata, mixando sapientemente le carte in un calibrato gioco di stili e ispirazioni. Elemento di lusso per la couture, declina il suo aspetto sofisticato per merito dell’abilità manuale delle sarte che dedicano ore di lavoro alla più perfetta resa formale della sua essenza. Non meno prezioso sul versante prêt-à-porter, che lo vede trionfare in ogni dove e in ogni come, vuoi elemento preponderante di una creazione – abito, camicia, gonna, ecc. -, vuoi dettaglio lussuoso, volto a elogiare un capo d’abbigliamento piuttosto che un accessorio – bag, jabot, balze, scarpe. Intrigante ma mai volgare, sussurrato e mai gridato, il pizzo mantiene inalterato il suo fascino altero che rimanda ad antiche epoche aristocratiche. Ideale per il giorno se utilizzato nella sua variante più discreta, diviene un alleato insostituibile per la sera con total look capaci di incantare un’intera platea nelle occasioni più mondane. La sua azione nobilitante non si ferma davanti a nulla: dai look più formali arriva ad arricchire quelli più informali, donando in ogni caso quel tocco d’indiscussa preziosità.
Molte maison – da Valentino a Prada, passando per Louis Vuitton - lo utilizzano nelle loro collezioni, proponendolo di volta in volta declinato nelle stagioni e negli outfit. Per alcune – Dolce&Gabbana in testa – è divenuto un must della loro cifra stilistica: la coppia di stilisti made in Italy lo inserisce in ogni sfilata, donandogli ora un’anima dark, ora una imperiale, ora una sexy. Il pizzo è divenuto un elemento cardine della loro moda, un dettaglio di stile che evoca la tradizione della sicilianità più pura tanto cara alla coppia e prezioso bagaglio d’ispirazione per la loro moda. Dal classico tubino all’abito corto dal tocco bon ton, dalla longuette super femminile alla blusa très charmante, dall’inserto di gonne nelle fantasie più varie – animalier o floreali che siano – alle bag e alle scarpe, il pizzo rivela la sua anima versatile, pronta a sposare ogni linea e ogni forma. Per look dall’alto tasso sensuale a tutte le ore del giorno, che non perderono mai di vista l’eleganza più autentica.  

mercoledì 15 febbraio 2017

ABOUT_Via Montenapoleone



Dici Milano e pensi al Duomo, al Castello Sforzesco, al Cenacolo Vinciano, alla Basilica di Sant’Ambrogio, al fascinoso quartiere di Brera con la sua Accademia. Inevitabilmente però, il pensiero corre anche allo shopping e al famoso “Quadrilatero”, mecca degli acquisti di lusso, crocevia delle più prestigiose firme internazionali, andirivieni di mode e stili: una tappa obbligata per chiunque decida di farsi un “bagno” di tendenze, comprando capi must piuttosto che le ultime novità viste in passerella o sulle riviste patinate. Una zona universalmente nota, che si dirama in celeberrime vie quali Spiga, Gesù, Borgospesso, Sant’Andrea, Santo Spirito. Al centro, a fare da spina dorsale, lei: Via Montenapoleone. Una strada che nel suo percorso – come raccontano Guido Lopez e Silvestro Severgnini nel volume Milano in mano (Mursia) – “percorre il fosso, tuttora esistente nel sottosuolo, che circondava le mura romane e di queste rimane traccia qua e là nelle cantine del lato dispari”. Nel tempo, quello che amabilmente era definito il “salotto di Milano” si è trasformato nel vortice della moda, assumendo spesso le caratteristiche di una passerella a cielo aperto, dove fare sfoggio di scarpe, borse, tailleur, cachemire, completi da uomo, gioielli, orologi. A contestualizzare il tutto, qualche automobile – di lusso, ça va sans dire – disseminata qua e là. Via Montenapoleone è stata protagonista di un significativo mutamento, concomitante con lo sviluppo del made in Italy e, in particolare a Milano, del prêt-à-porter: due fenomeni che hanno eletto a proprio proscenio la strada in questione e le arterie limitrofe, per tutta una serie di considerazioni d’immagine e d’esclusività che è inutile citare o illustrare ora…basta infatti farsi un giro per il Quadrilatero per capire immediatamente le motivazioni che hanno spinto a scegliere questa zona. E per un’evoluzione che avviene, necessariamente se ne verifica un’altra: se Montenapoleone diviene il fulcro della vita modaiola, la Galleria Vittorio Emanuele, fino agli anni ’70 asse centrale del passeggio, perde la sua naturale vocazione di ritrovo cittadino. Modifiche nei comportamenti urbani da cui ne sono scaturite altrettante nelle abitudini dei cittadini e in generale di Milano, con tanto di note malinconiche da parte di molti bon vivants nonché memorialisti dell’epoca come lo scrittore Raffaele Calzini, che nel 1950 scriveva: “Era ancora, attorno al 1920, una pacifica e signorile via che raccoglieva come un maggior fiume gli affluenti solitari e aristocratici di via Borgospesso, di via Santo Spirito, di via Gesù, di via Sant’Andrea. Per un fenomeno urbanistico imponderabile, dapprima timidamente, poi con maggior coraggio, infine con spavalderia e tra poco con sfacciataggine, Montenapoleone si mise in gara con altre eleganti vie italiane: con la fiorentina via Tornabuoni, la romana via Condotti, la palermitana Quattro Cinti, la napoletana via Chiaia”. Parole che suonano quanto mai attuali, da un lato nel mostrare il modo in cui il prestigio della via sia divenuto sempre più ostentato, dall’altro come sia entrata di diritto nel firmamento della mappa dello shopping internazionale, rubando la scena oltre alle appena citate vie italiane anche alle internazionali Bond Street (New e Old), Sloane Street, Avenue Montaigne, Faubourg Saint-Honoré, la 5th Avenue. Un tracciato immaginifico e magnifico del consumismo dal retrogusto modaiolo.
Ma tornando alla nostra Milano, celeberrime sono state le tappe del mutamento di Montenapoleone documentate anche giornalisticamente: negli anni ’70 e ’80, la drogheria Parini – una sorta di Fauchon milanese nel campo delle spezie e delle salse, ha lasciato il posto a Valentino e il fruttivendolo Moretti con le sue primizie a prezzi da carato alle calze Fogal. Versace ha poi spodestato Ricordi, mentre il Salumaio – un’istituzione gastronomica di Montenapoleone – ha traslocato all’interno di un cortile per far posto all’insegna di Corneliani. Una metamorfosi per così dire però preannunciata. A ben vedere, infatti, già negli anni ’20, Bottega di Poesia, una libreria-galleria d’arte fondata da Enrico Somaré, Emanuele Castelbarco e Walter Toscanini, era stata costretta a chiudere alla volta dell’insediamento di Marco, un negozio di stoffe. Un segno del destino? Sicuramente la naturale inclinazione di Montenapoleone nel ritagliarsi un ruolo da protagonista nello scenario della moda e, ancor più, delle abitudini di consumo internazionali. Un mutamento seguito per linee interne, che ha affinato il prestigio e l’esclusività della Via, traino dell’intera zona attigua, proiettandola nella piena notorietà mondiale. Con l’assunzione di tutto il carico valoriale annesso e buona pace delle altrettanto eleganti strade milanesi. Un destino segnato ma sicuramente un’attitudine specifica di Montenapoleone nel divenire asse strategico dell’universo di stile, tanto da dar vita nel tempo a un’Associazione destinata – l’Associazione della Via Montenapoleone – che ne tutela l’immagine, coordinando le azioni dei singoli attori coinvolti e promuovendo interventi sinergici e mirati, volti ad avvalorarne lo spirito prestigioso. 

giovedì 9 febbraio 2017

PEOPLE_Manolo Blahnik



Manolo Blahnik e le contaminazioni artistiche… Nel 1965 vuole dedicarsi all’arte tout court e va a Parigi; nel 1969 vuole diventare scenografo come Cecil Beaton e lo segue a Londra; ma solo nel 1970 – l’anno della svolta – trova la sua strada come creatore di calzature, complice lo zampino di Diana Vreeland, il mitico direttore di Vogue USA.
Nato nel 1942 a Santa Cruz de la Palma, isola delle Canarie, da madre spagnola e padre cecoslovacco, Manolo Blahnik si presenta alla Vreeland a New York per mostrarle i suoi bozzetti teatrali, ma lei apprezza in particolar modo uno schizzo di scarpe, tanto da suggerirgli di proseguire per quella strada.
Blahnik si avvicina così al mondo della produzione calzaturiera, visitando artigiani e studiando i macchinari dell’industria manifatturiera in modo da impararne tecniche e segreti. Correva l’anno 1971 e già iniziava a produrre calzature a Londra dove l’anno successivo il noto stilista Ossie Clark userà le sue creazioni per alcune collezioni. Nel 1973 apre il suo primo negozio a Chelsea, continuando, al contempo, a disegnare per altri stilisti come Jean Muir e Zandra Rhodes. Nel 1977 le sue creazioni vengono vendute dai grandi magazzini Bloomingdales, mentre nel 1979 viene aperta la prima boutique monomarca in Madison Avenue.
Dagli anni ’80 in poi, molte e prestigiose sono le collaborazioni fra lo stilista e alcuni grandi nomi del fashion system: dagli stilisti inglesi, come Rifat Ozbek, agli americani Calvin Klein, Isaac Mizrahi, Bill Blass, Carolina Herrera e Oscar de la Renta.
Tra le caratteristiche vincenti di Manolo Blahnik, vi è sicuramente l’aspetto di essere al contempo artigiano e artista della calzatura, dimostrando una raffinata sensibilità per la moda: le sue creazioni, veri e propri esercizi di stile e precisione, nascono dalla passione per il lavoro manuale e dall’estrema attenzione per l’equilibrio d’insieme.
La sua vena creativa s’ispira a fonti diverse: per esempio, all’architettura, evidente in modelli come Guge del 1976-1977 che rimanda all’opera di Frank Lloyd Wright. Allo stesso modo, anche i materiali utilizzati esplorano mondi differenti, come l’universo tecnologico dei sandali Avion (1982), estremamente stilizzati e leggeri grazie all’impiego dell’alluminio. Con John Galliano nel 1997, in occasione della prima collezione disegnata da quest’ultimo per Dior, Manolo Blahnik crea i sandali Masai, decorati come vuole la tradizione africana con un intreccio di fili di perline che fasciano la gamba fino al polpaccio.
Oltre ai numerosi riconoscimenti conferitigli negli anni, nel 2003 il Design Museum di Londra gli dedica una grande esposizione-tributo del suo lavoro trentennale: un evento che coincide con la pubblicazione del libro Drawings, una raccolta di bozzetti delle calzature più famose. Seguiranno altre pubblicazioni, tra le quali, nel 2005, Blahnik by Boman, un libro fotografico con un’introduzione a firma dell’amica Paloma Picasso.
La fama planetaria arriva però grazie al serial tv Sex and the City, complice una Carrie Bradshaw (alias Sarah Jessica Parker) innamorata pazza di questi piccoli gioielli, che non perde occasione per sfoggiarli fiera e orgogliosa così come di citarli: le “Manolos” diventano negli anni Zero un autentico fenomeno di costume, icona pop delle donne metropolitane.
Il successo di Manolo Blahnik viene ulteriormente validato nel 2005, quando disegna le calzature per il film Marie Antoinette diretto da Sofia Coppola, un cult del cinema storico in costume.

Ma è nel 2007 che, forse, arriva il riconoscimento più alto, ossia il titolo di membro onorario dell’Ordine dell’Impero Britannico, conferito dalla Regina Elisabetta. Si tratta di un ordine di cavalleria istituito da Re Giorgio nel 1917 per premiare coloro che hanno dato prestigio al Regno Unito in diversi ambiti.

mercoledì 8 febbraio 2017

LEISURE_Inside Out. The Social Life of Bags



Il cammino di affermazione della donna italiana attraverso le borse e il loro contenuto, che l’hanno accompagnata dai primi Anni Cinquanta a oggi. “Inside out. The social life of bags” è il titolo del progetto espositivo che apre a Palazzo Morando (via sant’Andrea, Milano) dal 13 al 14 febbraio, portando Mipel nelle strade del capoluogo lombardo.
Promossa da Aimpes, con il supporto del Ministero dello Sviluppo Economico e di ITA – Italian Trade Agency, patrocinata dal Comune di Milano, l’esposizione è curata da Fabiana Giacomotti, scrittrice e docente di Linguaggi della Moda all’Università “La Sapienza” di Roma. Essa si svolgerà in concomitanza della 111esima edizione di Mipel e sarà mirata a valorizzare al tempo stesso il design delle borse italiane e la loro funzione.
In mostra, 42 borse iconiche – rappresentative del proprio momento storico per forma e design -, libri ed oggetti che le hanno idealmente occupate anno dopo anno: una modalità per mettere in evidenza lo speciale rapporto fra la donna e questo indispensabile accessorio di moda. Le preziose borsette in coccodrillo a mano con i portarossetto d’argento inciso e il portamonete delle signore raccontate dai romanzi di Gadda, insieme con le cartelle operaie da attaccare alla bici degli anni della ricostruzione. Le bisacce e le postine in cuoio e camoscio degli Anni Settanta con i testi, gli occhiali e i profumi che accompagnarono le proteste. I walkman degli Anni Ottanta negli zaini in tessuto tecnico, fino alle chiavi elettroniche e i cellulari sottilissimi di oggi, elementi quasi invisibili all’interno di shopper e doppie borse scomponibili e trasformabili, da usare da mattina a sera. Un rapporto simbolico e simbiotico, che viene enfatizzato da un allestimento di grande impatto e un filmato trasmesso su un grande vidiwall, realizzato grazie al supporto di Rai Teche.
La mostra, resa possibile dall’eccezionale disponibilità di importanti archivi d’impresa e museali, ma anche di collezionisti privati e del team Mipel, raccoglie borse e accessori di Araldi 1930, Amato Daniele, Bianchi e Nardi, Bonfanti, Borbonese, Bottega Veneta, Braccialini, Bric’s, Capaf, Olop, Fendi, Fendissime, Fermoda, Ferragamo, Gherardini, Giancarlo Petriglia, Gucci, Leu Locati, Lexiapel, Parmeggiani, Plinio Visonà, Prada, Roberta di Camerino, I Santi, Serapian, Trussardi, ma anche borse e piccola pelletteria anonima, di linea innovativa.
Inedita anche la forma e lo stile del catalogo, un mazzo di carte per giocare al “Mercante in fiera”, dove borse e simboli si legano secondo la creatività e l’estro pittorico dell’illustratore Federico Bassi. Realizzato a tiratura limitata in soli duecento esemplari, è destinato a diventare oggetto di collezione.
Dopo l’inaugurazione a inviti, il 13 febbraio, il 14 febbraio la mostra resterà aperta al pubblico, proseguendo il percorso 'Mipel in città' inaugurato in occasione della scorsa edizione e volto ad offrire un momento culturale di rilievo alla città di Milano. Dovrebbe quindi essere portata all'estero nei mesi successivi.

Inside Out. The Social Life of Bags
Palazzo Morando, via Sant’Andrea 6, Milano

13 e 14 febbraio 2017

martedì 7 febbraio 2017

LEISURE_Diana: Her Fashion Story



Dal 24 febbraio 2017 Kensington Palace ospiterà la mostra “Diana: Her Fashion Story”, tributo a Lady Diana nell’anno del ventennale della sua morte nonché prima di una serie di iniziative che in tutto il Regno Unito celebreranno la principessa. Ospitata nelle sale di quella che fu la sua dimora, l’esposizione è stata fortemente voluta dai figli William ed Harry con l’intento di ricordare la madre in tutto ciò che l’ha resa leggenda: dal suo impegno benefico al segno indelebile lasciato nel mondo della moda.
Gli abiti esposti delineeranno l’evoluzione del look della principessa, segno tangibile dei cambiamenti che attraversò nella sua vita: dal timido debutto in società agli ultimi tempi, vissuti all’insegna della determinazione. Una crescita a livello personale che trovò una valida forma di espressione nel suo stile, sempre più all’avanguardia nonché anticipatore delle tendenze.
La mostra apre con l’abito a pois firmato dalla couture Regamus, indossato da una debuttante 19enne Lady Diana e regalato anni più tardi a Madame Tussauds per vestire la prima statua della principessa. Seguono, poi, gli abiti con spalla nuda o maniche ampie e vistose, indossati in occasione di cene diplomatiche negli anni Ottanta; per finire al famoso, audace abito da sera a schiena scoperta e intarsiato di perline, indossato da una Diana più rilassata e perfino, nelle foto, spiritosa, nel novembre 1990, per un banchetto diplomatico a Tokyo, in presenza dell’imperatore Akihito.
Nel corso degli anni Novanta, la presenza e il carattere della principessa si imposero sempre di più. Gli abiti moderni di Catherine Walker, la sua stilista preferita, diventarono presto un must. Il trend continua con altri due abiti iconici: il Christian Dior stile sottoveste indossato nel 1996, in occasione di una serata al Metropolitan Museum of Art di New York, e quello rosso fuoco sfoggiato nel giugno 1997, per un discorso pronunciato a un gala benefico per le vittime delle mine terrestri, presso il Museum of Women in the Arts, a Washington.
Esposta anche una classica mise Emanuel in tartan azzurro, indossata in occasione di una visita ufficiale a Venezia negli anni Ottanta e che si credeva ormai persa. Accanto vi sarà un altro capo Emanuel, la camicia color rosa pallido con fiocco, indossata nel 1981 per il ritratto ufficiale scattato dal fotografo dei vip Lord Snowdon.
Abiti ma non solo. Nel percorso espositivo il visitatore potrà ammirare anche i bozzetti preparati per Lady Diana dai suoi stilisti preferiti, spesso con l’apporto personale della principessa.
Dei 26 indimenticabili abiti esposti, solo cinque sono di proprietà dell’Historic Palace Houses, l’ente di beneficenza che si occupa dei palazzi reali di Elisabetta II: gli altri 21 appartengono oggi a collezionisti privati e musei sparsi in tutto il mondo, e tornano a Londra ognuno con una storia aggiunta dopo la scomparsa di Lady D. Come il famoso abito da sera in velluto blu, firmato Victor Eldestein e indossato dalla principessa nel 1985, nella Casa Bianca, in un memorabile ballo con l’attore John Travolta. Lady Diana lo indossò anche in un ritratto ufficiale e lo mise poi all’asta per beneficenza, appena due mesi prima di morire. Lo acquistò una donna d’affari americana, pagando 100mila sterline e lo rivendette nel 2013 a un collezionista britannico per la somma record di 240mila sterline.

Diana: Her Fashion Story
Kensington Palace, Londra
Dal 24 febbraio 2017

lunedì 6 febbraio 2017

LEISURE_Aldo Coppola "Bellezza senza tempo"



La Bellezza. Uno dei grandi temi che da sempre impegna il genere umano nella ricerca di definizioni che combinano emozione e vissuto, filosofia e quotidianità. Le implicazioni con la sofisticazione dell’intelletto sono notevoli, al punto da invitare a interessanti digressioni attorno al tema. Tuttavia, essa implica innumerevoli contaminazioni anche con il nostro quotidiano, ossia con chi siamo, con quello che facciamo, con che modo e atteggiamento ci proponiamo e presentiamo alla società. Un concetto autentico di bellezza, che si spinge oltre la mera superficialità per lambire territori più aulici e soavi.
Utili in tal senso le argomentazioni portate avanti nella storia dai grandi pensatori. Per Oscar Wilde “La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è più alta del Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti del mondo, come la luce solare, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna”, così come “La Bellezza non può essere interrogata: regna per diritto divino” e ancora La Bellezza è l'unica cosa contro cui la forza del tempo sia vana. Le filosofie si disgregano come la sabbia, le credenze si succedono l'una sull'altra, ma ciò che è bello è una gioia per tutte le stagioni, ed un possesso per tutta l'eternità”. Per Fëdor Dostoevskij “La Bellezza salverà il mondo”, mentre per Emir Kusturica “La Bellezza femminile è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità”. Per concludere questo breve excursus filosofico con Arthur Schopenhauer e Hermann Hesse per i quali, rispettivamente, “La Bellezza è una lettere aperta di raccomandazione che conquista subito i cuori” e “La Bellezza rende felice non colui che la possiede, ma colui che la può amare e desiderare”.
Per tornare ai giorni nostri, la bellezza è stata cara anche a un grande interprete di una delle sue forme di espressione più forte ed emblematica, dall’intensa ed indiscussa valenza comunicativa: Aldo Coppola. Non un semplice parrucchiere o hairstylist che dir si voglia, bensì un innovatore nel mondo dei capelli, sia in termini operativi che di prodotto. Una personalità poliedrica che ha combinato l’attività professionale con la formazione, collaborando con la stampa e i più importanti eventi glamour. Il tutto nell’ottica di una visione dallo stampo mondiale, che l’ha condotto a conquistare numerosi mercati esteri, complice la sua cultura del capello.
Per lui e la sua attività la Bellezza è sempre stata centrale, ricoprendo un ruolo di spicco sia in termini estetici che artistici. Ma quanto dura la bellezza? La bellezza è un attimo fugace che un cuore, una mente o un grande fotografo possono rendere eterno.
Ed è proprio questo che Aldo Coppola a essere raccontato nella mostra Aldo Coppola “Bellezza senza tempo”, visitabile sino al 2 marco 2017 alla Triennale di Milano. Esposti oltre 250 scatti d’autore: un percorso emozionale che narra della bellezza senza tempo e della sua evoluzione attraverso le immagini immortalate da Oliviero Toscani, Javier Vallhonrat, Fabrizio Ferri, Giampaolo Barbieri, Carlo Orsi, David Bailey e molti altri, protagoniste delle sue campagne di comunicazione.
Proiezioni e reportage della sua vita frenetica fra saloni, backstage delle sfilate e dei set fotografici, beauty show testimoniano il suo instancabile lavoro con i magazine, gli stilisti e i fotografi più importanti del mondo. Dai confronti artistici con Giorgio Armani al rapporto da fratello con Oliviero Toscani, Aldo non era un uomo che si fermava alla mera performance professionale, era un uomo con cui non potevi fare a meno di voler esplorare l’universo della bellezza. Quella senza tempo.
La mostra è un percorso multi-sensoriale che attraverso dodici temi, racconta cinque decenni di storia italiana.
Un viaggio nella vena artistica dell’uomo che ha saputo diventare un punto di riferimento della coiffeur, della moda e del costume internazionale.
Un viaggio attraverso le sfumature della colorimetria, la metamorfosi delle forme, la magia della fotografia.
Un viaggio di condivisione dell’amore per il proprio lavoro.
Un viaggio di innovazione e avanguardismo tangibile e trasferibile.
Un viaggio di tenacia, ricerca e successi.
Un viaggio che racconta la storia di un uomo ma anche di molti uomini.
Un viaggio di passione per l’arte e per la sua semplicità.
Un viaggio attraverso la bellezza come forma di genio che non necessita spiegazioni.
Un viaggio dedicato alle donne, alla loro capacità di trasformare e trasformarsi.
Un viaggio che Aldo Coppola presenta attraverso immagini, video, parole e racconti.
Un viaggio semplice, meraviglioso ed eterno… proprio come lo è una rosa rossa.

Aldo Coppola “Bellezza senza tempo”
Triennale di Milano, viale Alemagna 6, Milano
Fino al 2 marzo 2017
Ingresso libero