lunedì 30 gennaio 2017

STYLE_Il caftano



Dici caftano e subito pensi ad atmosfere permeate di lusso e relax. La memoria corre senza freni a icone indimenticabili come Talitha Getty, immersa in una misteriosa Marrakech, e Diana Vreeland nel suo appartamento Manhattan. Il capo forse più semplice del ben vestire femminile ma che proprio in virtù di questa sua essenzialità – sinonimo di uno stile ricercato e per nulla scontato – è tornato ad essere tra i cult irrinunciabili della bella stagione, per inebrianti serate marittime piuttosto che per appuntamenti glamour a base di bien vivre. I migliori – da Muriel Brandolini ad Allegra Hicks a Yves Saint Laurent Rive Gauche – si trovano in boutique. Altre versioni meno costose si possono trovare in selezionati negozi etnici, dove sono acquistabili le tradizionali versioni indiane o marocchine. Più o meno dispendioso che sia, il caftano ha quel carattere di madeleine proustiana per cui rimanda alla mente quell’eleganza da jet-set tipicamente anni ’60 e ’70: un mondo patinato al punto giusto, dalle meravigliose atmosfere, popolato di bonnes vivants divenuti icone di uno stile di vita devoto al più puro ideale estetico. Babe Paley e Marella Agnelli docent in fatto di caftano: loro sapevano indossarlo come nessun’altra…guardare le fotografie dell’epoca e trarre spunto da come lo portavano loro può rappresentare un’ottima e autentica fonte di ispirazione. Indossato con ballerine o infradito rimane sinonimo di un bohemien style de luxe, abbinato invece a un prezioso paio di sandali-gioiello dal tacco alto sfodera la sua natura più sensuale, complice la leggerezza dei tessuti con cui è realizzato, i quali – impalpabili al tatto – accompagnano le movenze femminili in un intrigante gioco di forme e simmetrie irregolari. Monili, bracciali (etnici o a fascia che siano), bangles fanno il resto, arricchendolo nel suo allure e contestualizzandolo alla sua antica discendenza.

Eh già…perché, frivolezze a parte, il caftano nasconde un’anima nobile, risalendo addirittura al Trecento, dove era un capo di abbigliamento irrinunciabile nei Paesi del Medio ed Estremo Oriente, il cui clima richiedeva necessariamente vesti fresche e leggere. Da allora il caffetano - come veniva chiamato - ha solcato la storia di popoli e luoghi, culture e tradizioni, per arrivare in Occidente inalterato nel suo fascino nella seconda metà del novecento, proprio nel momento in cui scoppiava la divinazione per tutto ciò che sapeva di Oriente. È l’epoca in cui il Signore della moda – Yves Saint Laurent – si innamora di Marrakech: un amore che lo porta a reinventare il modello tradizionale, trasformandolo in un capo d’alta moda da inserire in collezione e far sfilare in passerella. Da lì in poi, questo celebre e antico indumento diviene il simbolo del look boho chic. E per dimostrare che la moda affonda in realtà radici ben profonde nella storia e nel costume dei popoli, il nome stesso caftano e i suoi sinonimi nascondono interessanti curiosità, mostrando segni d’appartenenza alle antiche civiltà che abitualmente utilizzavano simili terminologie nel loro lessico quotidiano. Caftano risulta essere di origine turca, ad indicare un’ampia veste con o senza maniche, di solito lunga e voluminosa, la maggior parte delle volte di seta o lino; Djellaba è di origine araba-egiziana e sta per la tradizionale veste lunga e morbida indossata dagli uomini in Medio Oriente; Tunica è invece di discendenza greco-romana e indica un indumento semplice da infilare, che di solito arriva al ginocchio. Verrebbe quasi da dire a ciascun popolo il suo nome…frase che attualizzata ai tempi moderni suona come “a ciascuno il suo caftano”. Scegliamolo con la massima libertà: è un capo da osare e con cui osare. Non fermiamoci quindi ai classici freni inibitori che scattano nell’acquisto di un qualsiasi altro capo d’abbigliamento. Siamo di fronte a un capo-non capo, per cui non valgono le solite regole di giudizio. Sbizzarriamoci e divertiamoci: garantisco che soltanto una volta indossato se ne può comprendere la sua magia. E da lì, provata una simile sensazione, si può solo che andare avanti.

lunedì 23 gennaio 2017

PEOPLE_Jole Veneziani



Jole Veneziani è tra le fondatrici della moda italiana tout court, avendo partecipato, tra i pochi eletti alla corte di Giovanni Battista Giorgini, alla prima sfilata presso Villa Torrigiani a Firenze il 12 febbraio 1951. Chiave di volta per lo stile del Belpaese universalmente noto, ha avuto un ruolo cruciale negli anni ’50 e ’60 per la definizione concettuale – e quindi strutturale – del costume, segnandone in maniera indelebile la storia.
Una vicenda, la sua, in cui gli aspetti umani hanno trovato una felice convivenza con quelli professionali, dando vita a un ideale sodalizio, quintessenza di personalità, passione e devozione. Emblematico per il tempo, come per oggi, il suo ruolo, che ha denotato la centralità dell’imprenditorialità femminile per la nascita, il successo e il consolidamento della moda italiana con tutti i tratti peculiari di quell’epoca: l’affermazione nella produzione di nicchia per un mercato urbano, il debutto sui mercati internazionali, la diversificazione della produzione, l’alleanza con l’industria tessile e della confezione. La moda, in altre parole, muoveva i suoi primi passi e Jole Veneziani l’accompagnava per mano, tenendola a battesimo e curandone il debutto in società.
Nata nel 1901 a Leporano, vicino a Taranto, vorrebbe seguire le orme della madre, appassionata di opera, ma alla morte precoce del padre avvocato abbandona i sogni artistici e si impiega in un’azienda francese di pellami e pellicceria. Diviene presto pratica del mestiere al punto da trasformarsi in esperta conoscitrice delle materie prime, del prodotto e delle sue tecniche di lavorazione. Prima della guerra è a Milano, dove la famiglia si è trasferita nel 1907 e dove nel 1938 apre il laboratorio di via Nirone, da cui escono le pellicce che attraggono l’attenzione delle sartorie di Alta Moda per la leggerezza, la qualità e la competenza con cui sono lavorate. Introduce innovazioni che si rivelano illuminanti per il settore, segnandone inesorabilmente l’evoluzione. A lei il plauso di aver esteso l’utilizzo della pelliccia a capi di abbigliamento tradizionalmente realizzati in tessuti, come i tailleurs, aprendo così nuove frontiere dello stile e trasformando la pelliccia da mera espressione di lusso conservatore in un materiale eccezionale e versatile, oggetto di continue tecniche di sperimentazione e innovazione.
Nel 1944 è la volta dell’apertura dello storico atelier di via Montenapoleone 8, dove vi rimane fino al suo ritiro quarant’anni più tardi. Qui sviluppa e articola la sua attività, allargando la produzione dalla pellicceria alla sartoria e muovendo i primi passi verso quella che assumerà i tratti di una graduale diversificazione, contemplatrice di accessori, profumi e linee diverse in grado di soddisfare le più disparate esigenze (Jole Veneziani, dedicata ai giovani, Veneziani Sport, Veneziani Arven, Veneziani Universal). Uno slancio creativo inarrestabile, precursore del contemporaneo total look, in grado di coinvolgere e inglobare i molteplici aspetti che riferiscono allo stile di una persona per interpretarli, studiarli e renderli in una chiave nuova ed esaustiva, coerente nelle linee di fondo e di gran carattere negli aspetti più formali.
Dopo la celeberrima sfilata della Sala Bianca, Jole Veneziani di diritto è proietta nell’olimpo dei divini, che ideano e creano l’eleganza con tanto di regole di stile, conquistando a gran voce plausi da tutto il mondo: il 4 febbraio 1952, il settimanale americano Time, nel commentare la sfilata di Palazzo Pitti, la esalta per la sua generosa partecipazione all’evento con una collezione di 130 capi di abbigliamento, per lo più sportivi, contrapponendola ai colleghi che avevano optato per una risicata selezione. Jole era così: partecipava con passione a tutto quello che faceva, dando il meglio di sé e guardando sempre oltre. Nel 1953 le cronache delle sfilate fiorentine la annoverano fra gli innovatori che sperimentano l’impiego delle fibre sintetiche nell’Alta Moda: un primo abbozzo di collaborazione industriale che, negli anni a venire, diventerà una costante, portandola a sviluppare partnership con importanti realtà. Antesignana di mode, fenomeni e tendenze, nel 1957, insieme a Germana Marucelli e Eva Sabatini – le altre due voci più importanti dell’Alta Moda milanese del tempo – propone abiti che anticipano gli eventi del decennio successivo: caratterizzati da una foggia che prescinde dalla forma naturale del corpo fino a mancare quasi completamente di progettualità, rappresentano la versione milanese della linea Sacco presentata a Parigi da Christian Dior in quello stesso anno, focalizzata su una struttura minimal.
All’inizio degli anni Sessanta, quando i segnali delle difficoltà economiche in cui si dibatte l’Alta Moda incominciano a farsi sempre più evidenti e rapidamente si appanna la sua funzione sociale e culturale, Jole Veneziani tenta di dare il proprio contributo al rinnovamento dell’Alta Moda milanese, presentando abiti che propongono l’accostamento di elementi contrastanti, come l’abito da sera in tweed a trama grossa con strascico. La conclusione del decennio segna l’inizio del suo declino, coincidente con l’apice raggiunto dai movimenti di contestazione che si raccolgono davanti alla Scala di Milano in occasione dell’apertura della stagione teatrale e che prendono di mira proprio le sue pellicce.
Eletta nel 1980 tra le “persone che hanno fatto grande Milano”, con tanto di mostra, monografia (a cura di Edgarda Ferri) e medaglia d’oro (opera dello scultore Pomodoro), nel 1989 se ne va, circondata dal calore del capoluogo meneghino che ha visto muovere i suoi primi passi e affermarsi il suo stile.

Numerosi i premi e i riconoscimenti ricevuti nel corso della sua carriera tra i quali: i due Oscar della critica della Moda per la migliore collezione; il Giglio d’oro della Moda (1952); la medaglia d’oro dal Museo di Philadelphia per un abito presentato a Los Angeles (1953); l’Oscar della calzatura (1969); il premio La trama d’oro (1971); il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica e, successivamente, quello di Ufficiale della Repubblica (2 giugno 1972); l’Ape d’Oro, riconoscimento alla imprenditorialità (1973); il premio Oscar Internazionale per l’Alta Moda Pellicceria: la Maschera d’Argento (1974); l’Ambrogino d’Oro.

giovedì 19 gennaio 2017

LEISURE_Manolo Blahnik in mostra a Milano




Milano si prepara ad accogliere una serie di appuntamenti espositivi strettamente legati al mondo della moda. Primo fra tutti, la grande mostra dedicata all’iconico couturier Manolo Blahnik, le cui creazioni sono oggetti cult.


A Palazzo Morando (via Sant’Andrea, 6), nel cuore del quadrilatero della moda, sarà ospitata dal 26 gennaio al 9 aprile 2017 la sua prima retrospettiva, a cui faranno seguito tappe internazionali.
Un’occasione irripetibile per vedere, tutte insieme, le migliori creazioni, vere e proprie opere d’arte, dei 45 anni di attività del maestro profondamente legato alla tradizione artigianale e con una forte relazione con l’Italia dal momento che tutt’oggi, nonostante il suo marchio sia noto in tutto il mondo, continua a produrre nell’interland milanese, dove ha iniziato.


MANOLO BLAHNIK. The Art of Shoes” illustra il mondo di Manolo Blahnik: esposti 80 disegni e 212 scarpe che coprono 45 anni di attività dello stilista.

Promossa da Comune di Milano | Cultura, Musei Storici, prodotta e organizzata da Arthemisia Group in collaborazione con Manolo Blahnik e con il sostegno del Governo delle Isole Canarie, la mostra curata da Cristina Carrillo de Albornoz  racconta la profonda influenza che l’arte e la cultura italiana hanno avuto e hanno ancora oggi sulle sue creazioni. La scultura greco-romana, il barocco, il cinema di Visconti, il Gattopardo, i coralli di Sicilia, tutto questo e molto altro si ritrova nelle calzature di Manolo Blahnik.

La scelta di Milano non è casuale, bensì fortemente voluta dal grande creativo in virtù del suo forte legame con l’Italia, patria dell’arte e dell’artigianato riconosciuti in tutto il mondo.
Dopo Milano, la mostra approderà all’Hermitage di San Pietroburgo in quella Russia che è stata per Blahnik una fonte d’ispirazione costante; passerà poi al Museum Kampa di Praga nella Repubblica Ceca, patria del padre dell’artista; infine sarà ospitata al Museo Nacional de Artes Decorativas di Madrid, in quella Spagna che è da sempre nel cuore di Blahnik. Nel 2018 il tour andrà poi al prestigioso Bata Shoe Museum di Toronto, in Canada.


MANOLO BLAHNIK. The Art of Shoes”
Palazzo Morando, via Sant’Andrea 6, Milano

Dal 26 gennaio al 9 aprile 2017

lunedì 16 gennaio 2017

PEOPLE_Loulou de La Falaise



Quando oggi indossiamo blazer e pantaloni di seta, in testa osiamo un turbante, al polso facciamo tintinnare una miriade di bracciali etnici e giochiamo col color block, è a Loulou de La Falaise (all’anagrafe Louise Vava Lucia Henriette Le Bailly de La Falaise) che ci rifacciamo, per trent’anni ispiratrice e collaboratrice di Yves Saint Laurent, icona e regina della scena parigina più mondana.
Alchimia di nobili radici irlandesi, raffinate genie francesi ed eccentricità britanniche, aveva un’allure unica: sottile come un foglio di carta, con i suoi boccoli rosso tiziano e gli occhi grandissimi spalancati sul mondo, maschera con atteggiamenti da garçonne la sua innata timidezza, sviluppando un’iconica magnitudine e, al contempo, un’inafferrabile ambiguità.
Un’androginia di cui Loulou era consapevole e fiera, tanto da saperla dosare sapientemente (non usciva mai senza tacchi) e forse eredità della bisnonna Vavarina Pike, che era solita stupire gli abitanti della sua cittadina irlandese indossando cardigan e fedora comprati nei reparti rigorosamente maschili dei department store londinesi. Ma Lady Pike non era l’unica a caratterizzare una genealogia costellata di stile. La nonna, Lady Rhoda Birley, moglie del ritrattista prediletto di Queen Mary, Sir Oswald Birley, era una donna d’innata bellezza, con la passione per il giardinaggio, la botanica e le arti. La madre, Maxime Birley, musa di Elsa Schiaparelli, Jacques Fath e Paquin, era per Cecil Beaton l’unica inglese davvero chic. Nel 1946 sposa l’aristocratico francese, scrittore e intellettuale, conte Alain de Bailly de La Falaise: due anni dopo nasce Loulou e l’anno successivo il secondo figlio Alexis. Il matrimonio, però, ha vita breve: accusata di tradimento, Maxime decide di divorziare, perdendo ogni diritto sui figli. Loulou e suo fratello crescono in una cattolicissima famiglia d’affido in provincia, a Seine-et-Marne. Per Loulou è un periodo difficile, al quale trova rimedio con l’immaginazione e la forza evasiva da essa sviluppata. Proprio in questi anni impara a rispondere alle difficoltà della vita con una risata, facendo finta che tutto vada bene. Con eleganza traveste il suo coraggio in indifferenza; diventa impermeabile e inizia il suo pellegrinaggio in vari istituti: le medie in Inghilterra, il liceo francese a New York, fino a terminare gli studi in collegio a Gstaad. Adolescente, ritorna a Londra, dandosi a una vita da vera socialite aristochic, complice lo zio Mark Birley, patron del night club Annabel’s di Berkeley Square, mecca delle star del rock e della moda. Alla fine degli anni ’60, decide di seguire la madre, che si è risposata col curatore del Met, a New York. Qui conosce Diana Vreeland, storico direttore di Vogue America, che se ne innamora: in men che non si dica fa la sua comparsa sulle pagine della rivista, fotografata da Richard Avedon e Helmut Newton. Tuttavia, quella della modella non è la sua strada, essendo troppo magra e petite come si definiva lei stessa. Ha più successo, infatti, come designer di tessuti per Halston, stilista di cui è amica.
Nel 1966, quasi per gioco, sposa l’aristocratico inglese Desmond FitzGerald, ma l’unione naufraga dopo poco tempo. Torna a New York dove divide l’appartamento con Berry Berenson, sorella di Marisa e nipote di Elsa Schiaparelli. Trascorre il natale con Mick e Bianca Jagger; frequenta il clan di Andy Warhol; è intima di Fred Hughes, storico direttore della Factory, e di Gerard Malanga, assistente del padre della pop art, fotografo e regista. Loulou è una delle giovani regine del mitico Studio 54, ma il richiamo della metropoli londinese si fa sentire: parte e qui partecipa al casting dello scandaloso film Performance di Nicholas Roeg a fianco di Mick Jagger. Qualche tempo più tardi conosce lo stilista Fernando Sanchez e si trasferisce nel suo appartamento di Parigi di Place de Furstenberg, dove avviene uno degli incontri più significativi della sua vita in occasione di uno speciale tea party a base di brioche calde e marijuana. Quel giorno suonano alla porta Betty Catroux, Thadée Klossowski de Rola, scrittore e figlio del pittore Balthus, Pierre Bergé e Yves Saint Laurent. Sarà stato per i suoi tratti che evocano un quadro di Edward Burne-Jones ma senza tragicità, per la sua risata folle, per la vitalità contagiosa, Loulou incanta il couturier. Incantevole ed etera nel suo completo pantalone di Ossie Clark, con una collana di vetro colorato al collo e un foulard annodato sui capelli splendidamente spettinati, Loulou appare magnetica, elegante e raffinata, quintessenza di aplomb aristocratico e di un modernissimo swinging London. Yves la invita a Marrakech, dove strabilia tutti con i suoi look originali, fatti di sarong, turbanti e parei. Non si vergogna di niente e nessuno. Il suo guardaroba è eclettico al punto da sconvolgere i codici vestimentari dell’epoca. Ha le idee chiare su cosa le stia bene e cosa debba bandire. Regola numero uno: meno vestiti possibili, essendo troppo piccola e troppo magra. Via libera, quindi, a pantaloni che allungano la figura, abiti striminziti dall’aria fanciullesca e stivali. Regola numero due: accessori a gogò. Cinture, bracciali, foulard: una cascata da mixare sapientemente con abiti dal gusto vintage.
A distanza di tempo, si comprende come Loulou sia stata l’antesignana del tanto predicato boho look à la Kate Moss. La prima ad avere sperimentato dress code del tutto inediti per l’epoca. Quattro anni dopo il loro incontro, mentre è in Sardegna con l’amica Diane Von Furstenberg, riceve una telefonata di Yves Saint Laurent che le propone di lavorare per lui. Nel 1972 comincia a disegnare la maglieria e gli accessori della maison. Il couturier è rapito dal gusto che possiede nel mixare i colori, dando vita ad abbinamenti del tutto nuovi. Per lui Loulou è un laboratorio di creatività: collane tempestate di jet, amuleti di vetro blu, chokers che sembrano fatti con ciottoli levigati dal mare di Bretagna, voluminosi bangles dorati incrostati di pietre, gli smalti, le lacche cinesi, gli orecchini scenografici e poi gli immancabili turbanti e foulard. Loulou rivela una grande cultura visiva, è disciplinata nel lavoro e instancabile. Immette nella vita del laborioso Yves Saint Laurent un’impronta bohèmienne, sensuale, edonista e gioiosa. Diviene la sua musa, l’ispirazione dietro le collezioni “folk” dei cosacchi russi e delle imperatrici cinesi. E sempre lei è dietro la rivoluzione di genere, che implica l’adozione di codici boyish da parte del côté femminile, per donne che amano sempre di più indossare lo smoking. A lei sono affidate la gestione e la supervisione del backstage delle sfilate ed è lei a essere la confidente del maestro.
Una simbiosi creativa e professionale che diviene un rapporto di stima reciproca, ma, soprattutto, di amicizia. Yves Saint Laurent, infatti, le organizza un indimenticabile party per il secondo matrimonio di Loulou con Thadée Klossowski de Rola presso lo Chalet des Iles, nel Bois de Boulogne, decorandolo come per uno sposalizio indiano. È l’11 giugno 1977: gli invitati, il gotha della società, arrivano a bordo di battelli fioriti, e la sposa, fedele alla sua vena androgina, è vestita da maharaja, con pantaloni sarouel, camicia, giacchino, calze e guanti bianchi, scarpette d’argento, cintura con pompon, una moltitudine di collane, grandi orecchini e in testa un turbante sormontato da una spilla gioiello e da una lunga piuma rossa, che riprende il bouquet di rose scarlatte. Ça va sans dire, tutto YSL Rive Gauche, la linea di prêt-à-porter lanciata dallo stilista. Look total white anche per lo sposo così come per lo stesso couturier. Dopo otto anni Loulou ha una figlia – l’adorata Anna – a cui ovviamente Yves fa da padrino.
La maternità rende Loulou ancora più gioiosa e più consapevole. Finiscono le serate e le uscite notturne e anche l’atmosfera della maison sembra assopirsi. Nel 2002 Yves Saint Laurent decide di ritirarsi dalle scene. Anche Loulou lascia il marchio e si cimenta con una linea di bijoux tutta sua. L’anno dopo apre una boutique. Le sue creazioni rappresentano la quintessenza del suo gusto: lacche colorate, pietre semi preziose, bei materiali, pregiate lavorazioni. Alle collezioni dona nomi poetici - I fiori del male, Sogno di una notte di mezza estate, ecc. - e a ogni pezzo il nome di una località a lei cara: Patmos, Barcellona, Udaipur, Tanger, Bahia. Ama l’antica tecnica Grispois, una lavorazione del vetro molto francese e molto delicata, raffinata e in via d’estinzione. Vende anche abiti, accessori, complementi d’arredo. Disegna gioielli anche per Oscar de La Renta; collabora con Target nell’ideazione di bijoux per tutte le tasche.

Inizia però un periodo nefasto per Loulou: nel 2008 muore Yves Saint Laurent, mentore e amico di una vita; nel 2009 è la volta di sua madre. Nel 2011 Pierre Bergé le affida la direzione artistica della mostra parigina Saint Laurent Rive Gauche, la Révolution de la Mode. Poco dopo, ormai malata, lascia il suo bellissimo atelier, chiude i negozi, abbandona Parigi e si rifugia con la famiglia in Normandia. Il 5 novembre 2011, a soli 63 anni, muore nella casa di campagna a Boury en Vexin, in compagnia del marito e della loro unica figlia Anna. È così, in silenzio, che se ne va una donna “rara” come la definiva il suo maestro. Una donna che ha insegnato l’arte del mix & match, a osare con i colori, a giocare con gli accessori, a non essere mai uguali a se stesse, a esprimere la propria personalità senza temere il giudizio degli altri.