giovedì 28 luglio 2016

STYLE_Principe di Galles: tessuto, ma non solo...




Collezione che vedi, usanza che trovi. Una di queste usanze che non perde mai il suo appeal, ma addirittura lo rinforza di rinnovata energia interpretativa, è il principe di Galles. Un grande classico sia per l’uomo che per la donna, caratterizzato dall’inconfondibile quadrettato di lana Saxony, dall’effetto sportivo ed elegante insieme, capace di coniugare il comfort informale allo stile più glamour. Da vero esteta. Utilizzato già nella metà dell’800 dalla corona inglese per la produzione dei completi per gli eredi al trono (dal cui titolo prende per l’appunto il nome) e, in particolare, da re Edoardo VII per le uscite in campagna o le battute di caccia, torna ogni anno con gran rispolvero quale sinonimo per antonomasia di chic contemporaneo, in bilico tra puro snobismo e praticità casual: una commistione d’ispirazioni che convivono armonicamente e trovano ampia valorizzazione in abiti, giacche, trousers o cappotti, proponendo di volta in volta versioni più classiche così come reinterpretazioni con tanto di aggiunte di varianti più o meno estrose. Che si tratti di divini soprabiti che strizzano in vita le silhouettes femminili, piuttosto che di completi maschili a tre pezzi in perfetto stile Grande Gatsby, si passa dal tradizionale disegno a quadri piccoli o a pied de poule dentro quadri più grossi a nuove ispirazioni che lo rendono concettuale, scomponendolo in forme più o meno geometriche, o ne rivelano la declinazione cromatica, colorandolo anche delle tinte più audaci, nella resa innovativa di un grande classico del passato che torna più contemporaneo che mai.
Se si vuole ripercorrere brevemente la storia di questo tessuto e spingersi un passo indietro nel tempo, si scoprono interessanti curiosità, come, per esempio, che i possidenti inglesi stabilitisi in Scozia ricorrevano al tipico quadrettato, di tonalità quasi sempre grigia, per distinguersi dai clan locali. Aneddoti british a parte, alla terra d’Albione va riconosciuto, in ogni caso, il tributo d’aver sancito l’entrata nel mondo della moda dell’utilizzo di quello che gli inglesi chiamano glain plaid o glen check: al duca di Windsor, eclettico e informale nipote di Edoardo VIII, che aveva scelto di abdicare al trono per sposare Wallis Simpson, l’americana dal burrascoso passato matrimoniale e dalle origini non aristocratiche, il plauso d’averlo sdoganato nel guardaroba di ogni gentleman che si rispetti. Eccentrico e anticonformista al punto tale da togliersi la giacca in ogni occasione – anche la più formale – e rimanere con la camicia arrotolata, al principe di Galles o duca di Windsor, che dir si voglia, piaceva giocare con la moda: si divertiva a sperimentare, era il dandy della famiglia reale, un’icona di stile, in netto anticipo su quello stuolo di divi e divini che nei decenni successivi si sarebbero dilettati, più o meno con successo, nel culto della moda. Sicuramente il buon gusto e l’eleganza innata che possedeva lo agevolavano e gli davano quel netto vantaggio su chiunque, anche solo per scherzo, si fosse cimentato in una simile impresa: gli riuscivano bene, perché spontaneamente pensati e indossati con disinvoltura, abbinamenti audaci e azzardati per l’epoca – e ora di gran moda – come, per esempio, i calzini a righe abbinati a scarpe bicolore, o quelli a fantasia scozzese su pantaloni in tessuto madras. Un po’ come oggi, vi sono certe persone che si possono permettere gli accostamenti più improbabili, emanando in ogni caso glamour ed eleganza, altre invece che è preferibile si attengano alle regole basilari del codice vestimentario. Dipende sempre dalla persona e da come essa sa indossare con la medesima disinvoltura una mise semplice e una preziosa. Ecco il vero dandysmo…una cosa che al duca di Windsor riusciva gran bene. Tanto bene che sempre lui è stato il primo uomo ad abbinare con nonchalance scarpe scamosciate marroni ad abiti blu, colore che preferiva al nero, anche per lo smoking. Non amava la camicia rigida da frac, perciò, di concerto col suo fidato camiciaio, ha inventato il modello alternativo con collo rovesciabile e polsino doppio e pieghettato. E anche quando viaggiava non passava inosservato: il suo look preferito erano i completi doppiopetto grigi, un altro must del guardaroba maschile più “à la page”

mercoledì 27 luglio 2016

ABOUT_L'arte del nodo




Il nodo, punto focale della cravatta, è frutto di una creazione personale, di un gesto quotidiano che, seppur compiuto attenendosi ad un preciso schema, origina ogni volta una cravatta unica ma identica a se stessa nella sua essenza di accessorio per antonomasia dell’abbigliamento maschile. 
Attraverso il modo di annodare la cravatta l'uomo manifesta, seppur involontariamente, la sua personalità. Ma non solo…ogni nodo, infatti, ha il proprio nome e la propria storia. Durante il secolo scorso, diviene talmente importante da stampare piccoli trattati nei quali si disserta dei vari modi di annodare la cravatta. La storia narra che il gesto di annodare personalmente la cravatta è sempre stato tenuto in gran considerazione fin dagli albori dell’approdo della cravatta nelle abitudini vestimentarie di un gentleman che si rispetti. Luigi XIV, per esempio, amava annodare di persona la propria cravatta, scegliendola tra quelle che ogni mattina il cravatier gli porgeva su un vassoio. 
Anche Lord Brummel, il gentiluomo inglese al quale va attribuito il nuovo modo di concepire l'eleganza maschile, ogni mattina si dedicava con estrema perizia ad annodare personalmente la cravatta e se il nodo non gli riusciva alla perfezione al primo tentativo, era solito buttar via la cravatta utilizzata e prenderne un'altra, fino a quando il nodo non gli sembrava fatto a regola d’arte.
Il nodo più diffuso oggigiorno è comparso nella seconda metà dell'800 ed ha cominciato ad aver successo quando il colletto rigido è stato sostituito da quello morbido. 
Probabilmente, è stato utilizzato dapprima negli ambienti sportivi, quasi sicuramente a Londra dai frequentatori del "four in hand club" che si divertivano a lanciare nuove mode. Forse proprio lì è nata l'idea di annodare le cravatte come le briglie del tiro a quattro, da cui il nome di nodo "four in hand" (tiro a quattro). 
In Francia, questo stesso tipo di nodo, ha preso il nome di régate, poiché era usato soprattutto da coloro che partecipavano alle gare veliche. Un appellativo appropriato dal momento che, altro non è, se non una variante di un nodo molto comune in mare, il parlato, usato spesso per gli ormeggi provvisori. 
L'origine sportiva del nodo, inoltre, sarebbe più che verosimile dato che nel secolo scorso, anche quando si praticava sport, bisognava indossare la cravatta: pertanto, soprattutto in questo ambiente, si era alla ricerca di nuovi modi di annodare, secondo soluzioni il più possibile pratiche e durature.
Con il passare degli anni e delle mode, i nodi si sono moltiplicati, diventando, alle volte, vere e proprie pratiche di disinvoltura manuale, da realizzarsi con un’abile maestria dei gesti. In particolare, 
ogni nodo è frutto di una piccola invenzione compiuta da personaggi più o meno famosi, in una tale varietà di nodi esistenti. Dire quale sia migliore di un altro è un’ardua decisione, piuttosto si può affermare con certezza che ve ne sono alcuni che hanno più personalità di altri.

Nodo americano
"L'Americano" è un nodo consistente, adatto alle cravatte larghe ed imbottite. Gli americani avevano accolto con favore l'avvento della cravatta larga ed il primo personaggio celebre che l'aveva adottata è stato Nixon, imitato poi da Ford e da Carter. Mentre negli Stati Uniti "l'Americano" viene eseguito quasi esclusivamente su cravatte larghe, in Europa lo si adopera con cravatte di ogni tipo. Risalta maggiormente se si portano camicie “button down”, cioè dal colletto fermato da due bottoncini.

Nodo bluff
Il "Bluff" è forse il più comune degli Ascot montati. È di dimensioni maggiori rispetto all'Ascot regolare e sarebbe quindi più complicato da preparare a mano. Apparentemente manca il nodo che in realtà è nascosto dalle gambe mantenute lievemente sollevate da una cucitura ed incrociate.
La cravatta montata è una cravatta artificiale, posticcia, un puro espediente che da una vita ad una cravatta già annodata, il cui nodo è cucito.

Nodo classico
Le varianti dei nodi di papillon sono di competenza di pochi specialisti. Ad un occhio esperto fiocchi e nastri non sembrano cambiare di molto. Ciò che cambia è la natura stessa del papillon che viene annodato ogni volta in modo diverso: questo crea sottili differenze, quasi impercettibili.
Il "Classico" è un nodo particolarmente composto, adatto ai papillon già pronti da indossare, dato che una volta preparato è piuttosto difficile da sciogliere. Per questo viene utilizzato dai cravattai soprattutto per i papillon da vendere già annodati.

Nodo diagonale
Questo nodo è caratterizzato da un taglio diagonale che crea una linea di sbieco sul nodo. Può essere preparato quasi esclusivamente con cravatta di cashmere. Nel "Diagonale" il nodo si scopre e lascia in vista la piega. Essa crea un gioco di chiaro-scuro al centro del nodo stesso. Per valorizzare questo nodo è preferibile usare una cravatta chiara, in tinta unita a piccoli disegni.

Nodo inglese
"L'inglese" è il nodo classico per eccellenza. Fino agli anni Sessanta era questo il nodo portato dalla maggior parte della popolazione inglese. Usato inizialmente dalla classe dominante, è stato in un secondo momento imitato dal resto della popolazione. Lo stesso Edoardo VIII, prima di passare al "Windsor", portava solitamente questo tipo di nodo.
Per realizzarlo occorre una cravatta che non superi i 6/7 cm di larghezza ed il nodo non deve essere più alto di 3 cm. È un nodo neutro ed equilibrato: né troppo largo, né troppo stretto

Nodo puff
È questo un Ascot montato che ha però una forma molto simile ad una cravatta annodata. Esso è un normale Ascot che viene cucito al nodo.
Le gambe sono lievemente bombate all'uscita dal nodo. Talvolta per la bombatura si ricorre anche all'uso di un'imbottitura. Generalmente il Puff Ascott si completa con l'applicazione di una spilla.

Nodo scappino
"L'Half Windsor" è un nodo molto simile al "Windsor" ma si differenzia da esso per il fatto che nella preparazione è previsto un passaggio in meno. Ciò lo rende meno conico del Windsor.
È un nodo non troppo grande che può essere adoperato sia per dare più corposità al nodo di una cravatta troppo stretta, sia per appiattire il nodo di una cravatta particolarmente larga. Non è adatto alle cravatte di maglia.

Nodo semplicissimo
Come dice il nome stesso è un nodo ancora più semplice da preparare di quello normale. Risulta più piatto e sottile e rispetto alla sequenza normale risparmia un passaggio.
Per ottenere l'effetto del "Semplicissimo" il segreto sta nell'imprimere alla parte larga una torsione di 180° nella prima fase. Questo nodo ha un'ottima tenuta e benché sia molto semplice da preparare si scioglie con maggiore difficoltà rispetto al normale.

Nodo windsor

Di gran moda negli anni trenta, prende il nome dai duchi di Windsor in modo particolare da Edoardo VIII. Si tratta di un nodo simmetrico a struttura conica, adatto ai colli molto aperti, come quelli delle camicie italiane.

martedì 26 luglio 2016

PEOPLE_Ugo Mulas



Ugo Mulas rappresenta a tuttotondo l’ideale di un artista legato al territorio e, al tempo stesso, devoto a una lungimiranza culturale che lo spinge a guardare oltre e a trasferirsi dalla provincia bresciana al fermento milanese, proprio negli anni del mitico Bar Jamaica, ritrovo d’intellettuali nonché soggetto privilegiato dei suoi primi scatti. Correva l’anno 1950 e oltre e, ben presto, Mulas comincia a dedicare anima e corpo al reportage e alla fotografia pubblicitaria e di moda, contribuendo a creare la nuova immagine internazionale dello stile italiano. I suoi lavori riscuotono subito l’approvazione del grande pubblico, occupando - di buon grado – le pagine di prestigiose riviste quali Illustrazione Italiana, Settimo Giorno, Domus, Rivista Pirelli e Novità, che nel 1966 diventerà Vogue Italia. Sulla scia di una sana contaminazione di visioni e interpretazioni, comincia a collaborare anche col mondo del teatro a fianco di Giorgio Strehler, realizzando per lui fotocronache di molti spettacoli. Affascinato dall’universo artistico, declinato in tutte le sue molteplici e differenti modalità d’espressione, segue personalmente tutte le Biennali di Venezia dal 1954 al 1972, mentre nella seconda metà degli anni ’60 si reca negli Stati Uniti per documentare la scena culturale newyorchese e personalità del calibro di Lichtenstein, Duchamp e Warhol. A causa di una grave malattia, nel 1970 è costretto a ridurre la sua attività: ciò non frena però il suo interesse per l’arte e inizia così la serie Verifiche, una riflessione sul lavoro svolto, visto attraverso una rilettura della storia della fotografia e improntato a scandagliare ogni implicazione concettuale. Una sorta di testamento artistico, summa esplicativa delle ispirazioni alla base del suo operato e della resa per immagini di stili, visioni e suggestioni. Il 2 marzo 1973 si spegne a Milano, ma il suo estro e la sua capacità visionaria non hanno mai smesso d’influenzare tutti coloro che nel tempo hanno deciso di seguire le sue orme. Numerose le mostre dedicate nei decenni al suo talento, tra cui New York: the New Art Scene (Milano, 1967), Ugo Mulas fotografo 1928-1973 (Ginevra, 1983 e Zurigo, 1985), Ugo Mulas. La scena dell’arte (Milano, Roma e Torino, 2007-2008), Ugo Mulas (Madrid, 2009). Esposizioni ma anche pubblicazioni, tra cui meritano di essere ricordate New York: arte e persone (varie edizioni, 1967), La fotografia (Einaudi, 1973), La scena dell’arte (Electa, 2007) e Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960-1970 (Johan & Levi, 2010).
Celebrazioni visuali e illustrate di un genio artistico che non ha avuto eguali nell’evoluzione del linguaggio fotografico, nella sperimentazione e nello studio di tutti i possibili registri di un’arte ermetica ma precisa al punto stesso.
La sua è stata una carriera breve e da autodidatta, ma al tempo stesso folgorante, ricca di successi e apprezzamenti: in poco tempo, Mulas ha rivoluzionato il concetto di resa fotografica, indagandone gli aspetti più reconditi, immortalati nella loro più sublime essenzialità formale. Viaggiando per immagini, ne ha dimostrato le potenzialità intrinseche, svelandone la doppia natura di mezzo e idioma. La fotografia diviene così una sorta di Giano bifronte, dalle due facce sinergicamente ed eternamente legate a mostrare il meglio di sé in un’equilibrata convivenza, dove una implica l’esistenza dell’altra. Una compensazione d’intenti e ispirazioni dalla doppia natura, ma dall’unica finalità: ritrarre la vita e gli istanti che ne scandiscono lo scorrere.
Ugo Mulas ama indagare ed esplorare, scoprire nuove realtà e lambire confini sconosciuti, svelare verità altrimenti celate, invitare alla riflessione sull’arte contemporanea. È stato complice dell’arte per avventurarsi – al tempo stesso – nei tecnicismi del linguaggio, senza perdere d’occhio la tendenza a introdurre idee innovative. Gli stilisti più importanti hanno collaborato con lui, beneficiando della sua interpretazione intellettuale quel tanto che basta perché porti sempre con sé quel tratto di magnifica leggerezza con il quale nobilitare gli abiti per mezzo d’immagini che evocano molto di più di quello che ritraggono.
Affascinato da tutto quanto risuona come sconosciuto, Mulas si è avventurato nei meandri della fotografia di moda proprio in quegli anni in cui rappresentava un terreno della comunicazione ancora inesplorato. A lui, quindi, il plauso di averlo scoperto, dandogli dignità artistica e innalzandolo a strumento per antonomasia della rappresentazione illustrata dello stile.
Le sue immagini balzano all’occhio per chiarezza concettuale, forza espressiva e meticolosa composizione formale. Complice e protagonista dei suoi scatti - oltre che autore -, Mulas non lasciava nulla al caso: amava scegliere le inquadrature, controllare le luci e strutturare le immagini. Ogni fotografia non era mai uguale alle precedenti, ma brillava orgogliosa di luce propria: al centro l’esaltazione dell’abito, inteso come suprema sintesi di creatività progettuale e cura artigianale. A fare da contorno, le commistioni artistiche tanto care a Mulas e volte a enfatizzare ancora di più il soggetto immortalato.

Immagini che appaiono come raffigurazioni essenziali, tripudio di scenografie inconsuete, che svelano tracce del linguaggio dell’arte contemporanea e un’immaginazione sconfinata.

lunedì 25 luglio 2016

ART & CULTURE_Il docu-film su Anna Piaggi



“Anna Piaggi, una visionaria della moda”. Questo il tiolo del docu-film su Anna Piaggi, giornalista, icona di stile, musa ed esteta, a firma di Alina Marazzi e presentato il mese scorso in anteprima assoluta al Biografilm Festival di Bologna.
Celebre per i suoi look, soprattutto per gli inconfondibili e originalissimi copricapi, amica intima di Karl Lagerfeld, che ne fece la sua musa, Manolo Blahnik, Gianni Versace, Anna Piaggi ha personificato la calibrata contaminazione tra arte e moda, storia e società, raccontandone le evoluzioni e anticipandone le tendenze.
Il docu-film racconta e celebra la sua vita, ripercorrendone le tappe fondamentali, prima fra tutte l’amore per la moda. Un amore nato nei primi anni ’60 - complice la sollecitazione di Alfa Castaldi, indimenticato fotografo che divenne suo marito nel 1962 – e validato dagli anni seguenti della swinging London durante i quali affinò sempre di più la sua attitudine estetica, dando vita, tra le altre cose, al concetto di moda vintage. Per Anna Piaggi la moda diventò arte e lei stessa si trasformò in un’opera d’arte, complice il suo stile e il suo inimitabile modo di porsi, quintessenza di un’immaginazione visionaria e di una creatività senza eguali. Un’immaginazione e una creatività che si riflettevano anche nella sua rubrica “Doppie Pagine” su Vogue Italia, incontri spaziali di parole e immagini, connubio di idee e colori di moda come in un quadro di Jean Michel Basquiat, spunto per numerosi stilisti, in cui leggeva le creazioni di moda, cogliendone emozioni e riferimenti artistici.
Nulla di quello che indossava Anna Piaggi era casuale, ma la spontaneità  e la naturalezza con cui si comportava facevano sembrare tutto estremamente fluido. E così l’eccentricità diveniva regolarità, simbolo di una devota ricerca estetica e, al contempo, di una naturale vocazione alla moda. Quella di Anna Piaggi non era ostentazione: non ne aveva bisogno. Era l’amore per la moda intesa come forma d’arte; come linguaggio espressivo della società, quintessenza di storia, tradizioni e cultura. Un amore che la portò a sviluppare un’immagine che la rese unica e famosa in tutto il mondo.
Il documentario di Alina Marazzi ripercorre tutto ciò, ponendo l’accento sulla doppia carriera di giornalista e icona del fashion. In quest’ottica, rilevatrici sono le interviste effettuate alle persone che l’hanno amata e stimata. Da Karl Lagerfeld che definisce la sua teatralità "un'irresistibile composizione grafica che ti veniva voglia di fissare sulla carta" a Jean Charles De Castelbajac che confessa quanto fosse solito guardarla per decifrarla, passando per le dichiarazioni rilasciare dal suo entourage che ama ricordarla come “una fabbrica quotidiana di creazioni…una prima attrice che cambiava look in ogni momento della giornata, ma sempre seguendo un filo ideologico…un'amante dell’originalità al punto da restare delusa se in un film la protagonista non si cambiava d'abito abbastanza spesso”.

Un viaggio per immagini e narrazioni attraverso le emozioni che una grande donna ha regalato al mondo della moda, ma non solo. A dimostrazione, ancora una volta, che la moda non è semplice frivolezza, bensì qualcosa che si spinge ben oltre, andando a lambire i confini dell’arte nella sua autentica accezione.