mercoledì 24 aprile 2013

PEOPLE_Irene Galitzine: la principessa della moda










Stilista italiana, Irene Galitzine è stata soprannominata, a ragion veduta, la “principessa della moda”. E, in effetti, principessa, lei, lo era di fatto. Arrivata da bambina a Roma con la famiglia in fuga dalla Russia, si dimostra, sin dalla giovane età, una donna di grande fascino e cultura. Studia storia dell’arte e parla diverse lingue, mostrando un’apertura mentale e una curiosità vitale per tutto quanto rappresenta un elemento di novità. Possiede uno stile innato, che non passa inosservato alle Sorelle Fontana, vedendo in lei l’ideale ambasciatrice dei loro abiti.
Un destino, quello della moda, che appare in maniera dominante nella sua vita nel 1959 con la prima collezione. Disegnata in collaborazione con Federico Forquet, in sartoria viene realizzata dalla première Maria Carloni, uscita dalla maison Ventura. Il 1960 segna una tappa fondamentale nella sua carriera stilistica e nella storia del costume: viene lanciato il celeberrimo palazzo pigiama, che, presentato nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, si diffonde in tutto il mondo, fotografato e idolatrato da tutti i media, creando un vero e proprio fenomeno di tendenza.
Elegante ma al tempo stesso femminile, sofisticato quel tanto che basta per nulla togliere a quell’alone d’intrigo tipico di una donna misteriosa e affascinante, incanta Diana Vreeland, storica direttrice di Vogue America. È proprio lei, la sacerdotessa della moda, a battezzarlo così. D’un tratto, Irene Galitzine balza agli onori della cronaca, divenendo icona di uno stile ben preciso. In quell’ampio, prezioso ed elegante insieme da sera si cela la sua visione: pantaloni, ma ultra femminili, per la donna moderna, o gonna ampia, danzante, per le linee più devote a un’ispirazione classicheggiante; colori forti, decisi, che possono rendere sensuale anche un semplice impermeabile; ostracismo al nero per la sera a favore di piccoli abiti fiammanti o tailleur di seta.
Il suo sodalizio con i grandi nomi vede alternarsi diverse figure di elevata caratura, custodi di un prestigioso patrimonio stilistico e culturale: dopo Forquet, si avvale della collaborazione del disegnatore scpagnolo Elias Zabaleta. In ogni caso, Irene Galitzine pone sempre al centro della sua moda la donna e la sua femminilità, esaltandola con quella semplicità delle forme che evoca uno scrigno di contenuti, quintessenza di profondi e radicati significati.
Nel 1988, presenta i suoi abiti al teatro Rossija di Mosca, di fronte a 2500 persone. Dal 1990, il marchio diviene di proprietà della società Xines, che fa capo a Giada Ruspoli, mantenendo in capo alla stilista in persona la supervisione del prodotto a cominciare dalla fase creativa. Nel 1996, la casa editrice Longanesi ha pubblicato la sua autobiografia dal titolo Dalla Russia alla Russia.
Dulcis in fundo, nel 2002 sfila all’Art Café di Roma la nuova collezione haute couture Irene Galitzine, disegnata da Massimo Stefanini, stilista umbro, laureato in architettura e con una lunga esperienza come costumista teatrale. Ancora una volta il patrimonio del creatore trova validazione e consacrazione nello stile Galitzine, proponendo un’heritage ispirazionale: si tratta, in questo caso, di capi importanti, in velluto di seta e pizzi preziosi, ricamati in oro o arricchiti da frange. I colori sono decisi, molto nero, rosso scuro, marrone, affiancati da più tenui ècru e rosa cipria. Completano la collezione colbacchi in visone e preziosissimi bijoux interamente realizzati a mano.
Lo stile Galitzine non si smentisce nei suoi tratti caratteristici: riesce a proporre attraverso linee, fogge e tagli, tempi e luoghi, un’epoca e un insieme di vissuto. I suoi sono sempre stati abiti che hanno saputo emozionare e spingersi oltre la mera vocazione stilistica, portando con sé valore e significato, capisaldi di una storia pronta ad essere proiettata a gran forza nel futuro. 

lunedì 22 aprile 2013

LEISURE_Florence Design Week




A cavallo tra le consuete edizioni di Pitti Immagine, Firenze si prepara ad accogliere un’altra manifestazione dal respiro multidisciplinare.
Dal 20 al 26 maggio si svolgerà, infatti, Florence Design Week, uno degli eventi culturali-espositivi più importanti nel panorama nazionale ed internazionale, dedicato al design in tutte le sue forme di espressione, all’arte e all’ingegno, intesi come strumenti di comunicazione e di valorizzazione della cultura e dell’identità di individui, imprese e Paesi.
Teatro dell’iniziativa, diverse e prestigiose locations fiorentine; protagonisti, professionisti, aziende, università, buyers, direttori artistici, appassionati e artisti provenienti da tutto il mondo.
Lifestyle e arte di vivere i filoni lungo i quali di svolgerà il fitto programma di incontri e appuntamenti che per una settimana terranno banco nella città medicea.
Sulla scia del tema “Crossing People”, il Festival rappresenta un’occasione di incontro e confronto, grazie alla quale il pubblico che vi prenderà parte potrà interagire esplorando i diversi linguaggi del design (graphic e visual, industrial, fashion, interior, music and food). A corollario, un ampio focus sull’artigianato contemporaneo che punta sulla interdisciplinarità, la sostenibilità e l’interculturalità al fine di comunicare il valore e il significato delle numerose realtà attive nel mondo del design.
Emozioni, ricerca e innovazione per una settimana si sposeranno con il prezioso patrimonio artistico, generando un dialogo contemporaneo e stimolante.
Un evento, quindi, animato da un crocevia di persone di culture diverse, ciascuna con interessi propri, animate da singolari passioni che trovano un palcoscenico privilegiato in una manifestazione dal respiro internazionale. Il pubblico varcherà una Firenze consapevole del proprio bagaglio storico e del valore del presente, per immergersi in un itinerario dove il design si coniuga con il prestigio dei luoghi, toccando punti focali come la Biblioteca Nazionale Centrale e Palazzo Bombicci Guicciardini Strozzi. Una commistione tra passato e futuro, che prende, mixa e reinterpreta visioni e ispirazioni, creando nuovi scenari di sostenibilità e innovazione, complice una serie di esperienze interattive che si svolgeranno presso il Complesso delle Murate: qui si alterneranno workshops, speed dinners, esposizioni culturali e intrattenimento, combinando sapientemente business sostenibile e cultura digitale in collaborazione con FabLab e ToscanaIN, nonché il concorso Design Win Make, dedicato a tutti gli artigiani digitali.
Le distanze tra i luoghi vengono così oltrepassate, nell’ottica dell’abbattimento di ogni barriera o limite spazio-temporale: il design diviene la sola chiave interpretativa ed espressiva con cui comunicare il cuore della propria cultura e stimolare la nascita di fertili collaborazioni.
Sulla scia di un simile leitmotiv, verranno realizzati numerosi incontri, ossia vere e proprie occasioni di confronto: primi su tutti, “Chromo Sapiens, l’evoluzione del colore nell’architettura e nel design”, realizzato presso l’Archivio di Stato, e la mostra “A tre dimensioni – modelli di Architettura dai fondi dell’Archivio di Stato di Firenze” a cura dell’Associazione Le Polveriere.
Un concetto di design trasversale, che mette in risalto gli ampi scenari dell’arte contemporanea internazionale presso gli eleganti Palazzo Borghese e Grand Hotel Minerva, in un’esperienza condivisa con la rivista Arttour International, in collaborazione con Vivid Arts Network, Art for Florence Design Week e da quest’anno con Florence Biennale.
E se dire artigianato significa evocare l’universo che ruota attorno al made in Italy, Art.Co Artigianato Contemporaneo, in collaborazione con CNA Firenze, pone i riflettori su una riflessione che assume le tinte dell’eccellenza italiana in tutta la sua magnificenza.

Florence Design Week
Dal 20 al 26 maggio, Firenze

giovedì 18 aprile 2013

PEOPLE_Norman Parkinson e il realismo in movimento














Norman Parkinson: il fotografo e gentleman inglese che ha cambiato il modo di vedere e raccontare la moda e le donne. Questo, in sintesi, lo spirito emblematico dell’opera stilistica di Parkinson. A lui va il plauso d’aver liberato la figura femminile, permettendole di muoversi all’interno dello spazio fotografico. Fino ad allora – si parla degli anni ’40 – era buona norma che le modelle stessero ferme su uno sfondo statico. È lui il primo a svincolarsi da questo dictat, preoccupandosi, in prima istanza, di chi fossero realmente le donne immortalate e cosa andassero a rappresentare e mettendo in secondo piano  come avrebbero dovuto apparire secondo i canoni dell’epoca. Pertanto, le sue fotografie e le protagoniste di esse, divengono un segno dei tempi. Le sue non sono immagini alla moda, bensì narrano di persone reali che si muovono al loro interno: l’abito diventa così elemento di contorno e la fotografia assume un nuovo ruolo sociale e narrativo, raccontando di un luogo, di un’epoca, di un’emozione. Un cambiamento stilistico – le modelle che si muovono – parallelo a quello sociale e culturale – l’emancipazione e la liberazione della donna nel XX secolo.
Parkinson inizia la carriera nel 1931, diventando apprendista presso i fotografi di corte Speaight and Sons Ltd. Tre anni dopo si mette in proprio, aprendo un piccolo studio a Mayfair, nel cuore di Londra, specializzandosi come fotografo di debuttanti. Nel 1935 inizia a scattare per Harper’s Bazaar e Queen, mentre nel 1940 per la versione inglese di Vogue, usando uno stile tutto suo: scatti realizzati con la luce naturale, che colgono nel vivo fuggevoli istanti della vita delle donne.
Fotografia dopo fotografia, entra a far parte della viva e attraente scena creativa londinese, familiarizzando con il movimento surrealista e con i trucchi visivi, spesso umoristici, che lo caratterizzavano. È così che in molti suoi scatti riecheggiano contraddizioni tipiche del surrealismo e degli esponenti più celebri: da Spring hats in Bath, che ricorda De Chirico all’immagine della modella in un bosco, con un abito rosa Lancetti e il famoso divano ispirato alle labbra di Mae West disegnato da Edward James con il benestare di Salvador Dalì.
Parkinson amava lanciarsi a capofitto nelle sue imprese, concretizzando le sue idee senza lasciare nulla per intentato. Nei suoi lavori trapela la concezione della fugacità del tempo, del fatto che in pochi istanti potesse svanire tutto e, quindi, della relativa capacità di coglierlo nella sua autentica essenza, riproponendolo in chiave illustrata, quasi ad immortalarlo nella sua fulminea eternità.
Nel 1964 decide di trasferirsi a Tobago, dedicandosi all’allevamento e alla produzione di una varietà di salsicce chiamate “Parkinson’s bangers” che spedisce a Londra. Si tratta, però, di un soggiorno breve, dal momento che Diana Vreeland in persona, divenuta l’anno prima fashion editor per l’edizione statunitense di Vogue, lo chiama a collaborare per la rivista. Parkinson riprende a pieno regime, divenendo negli anni ’80 una vera e propria icona dell’arte fotografica: i suoi scatti, ancora una volta, definiscono un’epoca. Animato dal suo stile inconfondibile, continua a fare il contrario di quello che vuole la moda, ossia controllare l’identità della persona. Parkinson la libera: di muoversi, di esprimersi, di lasciarsi contagiare e, a sua volta, di contagiare con irrefrenabile entusiasmo e, al tempo stesso, irrinunciabile concretezza. Come per l’arte di Martin Munkacsi, suo punto di riferimento sul finire degli anni ’30, anche per la sua vale la definizione di realismo in movimento: nulla è statico e tutto avviene in scenari vicinissimi alla realtà quotidiana di ogni essere umano. Nel corso della sua carriera stilistica, passa da ambientazioni pastorali, decisamente britanniche, a contesti urbani (complice il trasferimento a New York), fatti di grattacieli e macchine sfreccianti.
Nel 1981 diventa fotografo ufficiale della corte inglese e lo stesso anno la National Portrait Gallery di Londra espone mezzo secolo del suo lavoro nella moda.
Gentile ed eccentrico quel tanto che basta per creare un personaggio in linea con la sua vocazione interiore, Parkinson era un perfetto gentiluomo inglese: garbato ma determinato, ironico e divertente, ma, al tempo stesso, convinto della sua arte al punto da desiderare di sperimentare ogni dettaglio per una resa formale d’avanguardia.

martedì 16 aprile 2013

STYLE_Valentino si ispira a Vermeer


















Il fascino discreto del made in Italy. L’eleganza sofisticata dell’artigianalità che trova realizzazione in capi unici, frutto di un estro visionario e di un’abilità manuale senza eguali. L’inconfondibile cifra stilistica di una tradizione creativa che unisce sapientemente classicità e innovazione, rigore manifatturiero e vocazione sperimentale, cura per il dettaglio, ricercatezza formale e cultura iconografica. Nulla viene lasciato al caso: ogni particolare è frutto di uno studio meticoloso, di pensieri e suggestioni che racchiudono precisi significati e valori. Si tratta della moda italiana che tutto il mondo guarda con ammirazione e reverenzialità, quintessenza di spirito imprenditoriale, qualità artigianale ed emozione artistica.
Emblematica, in tal senso, l’ultima sfilata di Valentino nella Ville Lumière: una collezione autunno/inverno 2013 che rappresenta un vero e proprio gioiello, sia in termini di qualità che d’identità. Quella stessa identità della moda italiana che sa imporsi con garbata determinazione su ogni palcoscenico internazionale, facendo grande il nome del nostro Paese ed esportando, con esso, tutti i valori unici ed inestimabili che nel tempo ne hanno tracciato in maniera indelebile il profilo.
Ad ispirare la coppia creativa della Maison – Maria Grazia Chiuri e Pier Paolo Piccioli – l’arte e, in particolare, la pittura fiamminga secentesca. Un omaggio a Jan Vermeer e alle scene d’interni a cui la collezione restituisce un’anima, complice la sapiente posologia di geometrie, atmosfere, preziosità decorative. Un equilibrio sospeso tra luce e penombra, tra severità ed eleganza, che rilegge in modo fedele gli slanci creativi del pittore e li reinterpreta secondo i canoni contemporanei.
Esili creature virginali scivolano leggere – quasi eteree – lungo la passerella, con i volti incorniciati da morbide trecce: calate in una dimensione atemporale, sembrano appena uscite dalla tela o pronte ad entrarci, immaginifica commistione di una seduzione metropolitana e di una ricercatezza d’epoca. A completare una simile magia, tagli eccellenti, linee essenziali, ma sinouse, e una femminilità d’antan, tripudio di grazia regale.
Lo stile Valentino sfila inconfondibile, fiero della perfezione delle sue architetture sartoriali e, al tempo stesso, dell’equilibrio dei dettagli e della classicità dei filati pregiatissimi. I tessuti evocano le stanze incantate di Vermeer, complici i bouquet floreali disegnati nelle tonalità dei blu oltremare e dei porpora sfarzosi. Un’estasi enfatica, resa tale anche dalle stole d’ermellino, dalle cappe e dai mantelli. I bustier, invece, sono cesellati come gli intarsi delle vecchie argenterie o come i damaschi borghesi; gli abiti-vestaglia coprono la silhouette per intero: quelli neri e austeri, riportano alla mente atmosfere di conventi o collegi, anche e soprattutto per l’utilizzo bon ton di colletti inamidati e di polsini severi, mentre quelli blu, bianchi, rossi e celesti, impalpabili e vaporosi come nuvole, si contraddistinguono per la minuzia dei ricami e l’essenzialità dei modelli.
Tutto appare retrò e contemporaneo al tempo stesso. Unico grande assente della collezione, nonostante protagonista indiscusso della tavolozza cromatica di Vermeer, il giallo. Non un errore e nemmeno una svista, bensì una libera interpretazione che ha voluto prediligere l’anima autentica del pittore, dando ampio spazio al decoro e al cesello anziché alle giustapposizioni cromatiche. Le oscurità e i mezzi toni prendono così il sopravvento sulle concentrazioni radiose, così come la sapienza costruttiva su quella luministica, in un gioco romanzato di suggestioni, che dosano arte e moda nella migliore resa possibile.