mercoledì 19 dicembre 2012

ABOUT_L'immagine di moda: storia ed evoluzione




















Parlando di riviste patinate devote allo stile declinato nelle sue accezioni più autentiche – Vogue in testa – non si può far riferimento alla fotografia di moda propriamente intesa.
Per farlo, niente di meglio che iniziare da una definizione di Alexander Liberman a riguardo: “Una fotografia di moda non è la fotografia di un vestito; è la fotografia di una donna”. Questo, in sintesi, è quanto si aspetta di vedere una donna nel momento in cui osserva uno scatto di moda: lo specchio di se stessa e non una semplice raffigurazione estetica; il riflesso delle proprie fantasie, di come vorrebbe apparire agli occhi degli altri, di quello che vorrebbe trasmettere. Pertanto, qualcosa che si spinge ben oltre la mera apparenza figurata, affondando il suo credo in valide motivazioni e ragioni d’essere. Immagini per così dire introspettive, che con la loro perfezione formale invitano coloro che le ammirano a guardarsi dentro, per capire il proprio ego e poter affermare, convinti, “voglio essere così”. Un viaggio nell’essere e nell’umanità, volto a illustrarne la ricchezza e la complessità, a emozionare di fronte alla relativa presa di coscienza e a trasformare in qualcosa di tangibile aspetti altrimenti impercettibili alla vista e interpretabili solo dagli animi più sensibili.
La fotografia di moda si carica, pertanto, di pregnanti istanze sociali, volte a mostrare il suo lato più investigativo. Testimonia un’epoca, riportandone fedelmente tutti i tratti che la caratterizzano. Documenta puntualmente i valori di un tempo, di quel preciso istante in cui viene realizzata: diviene storia e parte integrante del vissuto di ciascuno di noi, assurgendo il ruolo di compagna di viaggio di un tempo che scorre ed evolve. A lei, l’arduo compito di rappresentarne con matematica precisione i cambiamenti, cogliendoli nella loro essenza e mettendoli in scena con la forza dell’immagine.
Fotografia di moda intesa come veicolo della società: ecco svelato perché la si vede mutare nei suoi canoni estetici e nella sua resa formale.
Le prime fotografie apparse su Vogue, raffigurano donne dell’alta società, vestite con abiti sontuosi e grandi cappelli; le immagini sono spesso scattate nelle loro dimore o nei luoghi di ritrovo dell’alta società dell’epoca, come yacht club o country club. Uno stile fotografico che con l’avvento di Condé Nast subisce un profondo mutamento: gli abiti devono essere indossati da attrici, sicuramente ben più adatte a posare e più inclini all’obiettivo rispetto alle rispettabilissime signore dell’alta società. Ai Campbell Studios l’annoso compito di rendere in immagini quello che a Nast frulla nella testa.
Il gennaio 1913 segna un punto di svolta: su Vogue compare una suggestiva fotografia che ritrae una donna in abito bianco con ornamenti scuri, rivolta verso l’obiettivo con aria altezzosa e una mano su un fianco. Quest’immagine rivoluziona lo stile della fotografia di moda dell’epoca, tanto da indurre il fotografo – Adolphe de Meyer – a firmare nel 1914 un contratto di esclusiva per le riviste Condé Nast. A lui, seguono numerosi altri maestri dell’arte fotografica, tra cui svettano Edward Steichen, Cecil Beaton, Horst P. Horst, Toni Frissel e André Durts, che contribuiscono a rendere uniche le pagine di Vogue negli anni ’20 e ’30.
Durante il secondo conflitto mondiale, la rivista dona ampio spazio ai reportage di guerra di Lee Miller, che segue l’esercito americano dallo sbarco in Normandia alla liberazione della Francia, del Lussemburgo, del Belgio e dell’Alsazia. La fotografa immortala anche i campi di concentramento di Buchenwald e Dachau: gli scatti saranno pubblicati sul numero di giugno del 1945.
Come si diceva, numerosi i nomi della fotografia che si sono avvicendati nella resa illustrata delle pagine di Vogue, rendendole uniche e indimenticabili. Irving Penn, per più di sessant’anni stretto collaboratore della testata, entra a farvi parte nel 1943 in qualità di assistente dell’allora neo art director Alexander Liberman. Il suo compito è quello di trovare nuove idee per le copertine, spiegandole ai fotografi. Non riuscendo nel suo ruolo, viene invitato da Liberman a scattare lui stesso le fotografie: un debutto quasi casuale che segna l’inizio di una delle carriere più feconde in ambito fotografico.
In qualità di art director, Liberman è deciso a rivoluzionare la rivista e per farlo si avvale dell’imprescindibile contributo di nuovi fotografi da affiancare a Horst, Beaton e Penn. Viene così assunto Erwin Blumenfeld, sotto consiglio di Beaton, che porta dentro le pareti di Vogue, lo cifra stilistica che lo ha reso celebre nel settore: grande esperto di tecniche di camera oscura e amante della sperimentazione. A sua firma, decine e decine di copertine, anche se la più rappresentativa è sicuramente quella del numero di gennaio del 1950, raffigurante il viso della modella Jean Patchett ridotto, dallo stesso Blumenfeld, a un solo occhio e a una bocca con un neo. Definito a ragion veduta da Liberman “il più grafico di tutti i fotografi”, si occuperà soprattutto di copertine. 
Nel 1955 è invece la volta di William Klein, a cui va il plauso di riuscire a creare atmosfere uniche nelle sue immagini, ambientando i suoi set nelle strade delle metropoli e facendo in modo da indurre nelle modelle un atteggiamento del tutto naturale di fronte all’obiettivo. Gli va riconosciuto, inoltre, il merito d’aver introdotto l’uso di strumentazioni poco diffuse all’epoca nella fotografia di moda, come teleobiettivi e grandangolari, ponendosi quale pioniere dell’avanguardia tecnologica e suo promotore.
Il 1° settembre 1962, invece, Vogue esce con gli ultimi scatti di Marilyn Monroe, realizzati da Stern in un servizio per la rivista effettuato all’Hotel Bel Air di Los Angeles.
Nel 1965 si unisce alla cordata Richard Avedon, già molto affermato nell’ambiente, portando il suo stile, il cosiddetto Look Avedon: in altre parole, ragazze moderne, perfettamente a loro agio anche con indosso le stravaganze stilistiche più estreme, come gli indumenti di plastica o metallo in voga nell’alta moda degli anni ’60.
Complice l’emancipazione femminile di quel tempo, nel decennio immediatamente successivo s’impone l’esigenza di rappresentare capi d’abbigliamento pratici, portabili e confortevoli, senza privarli però del fascino e della fantasia necessari ad attrarre l’attenzione delle lettrici. Dall’ideale di bellezza si comincia così a passare a un vero e proprio stile, da rendere e illustrare attraverso gli scatti di abili maestri dell’obiettivo, in grado di cogliere le particolarità estetiche per enfatizzarle con la loro firma.
Nasce così lo “Stile Strada” o “Stile Paparazzi”, in altre parole i fotografi che fingono di sorprendere le loro modelle in strada mentre svolgono le loro consuete attività quotidiane. Chris Von Wangengheim, Barry Lategan, Albert Watson, Duane Michaels, Kourken Pakchanian e Stan Malinowski diventano veri e propri esperti di questo filone, anche se la palma di protagonista indiscusso in quest’ambito va ad Arthur Elgort, che ha saputo distinguersi su tutti, diventando uno dei fotografi preferiti di Grace Mirabella.
È l’inizio degli anni ’70 quando Vogue assume Helmut Newton, colui che ha creato le immagini più sensuali e intriganti del XX secolo. Nello stesso periodo approda anche una fotografa, dallo stile indubbiamente provocatorio: Deborah Turbeville. Entrambi gli artisti, anche se molto criticati dal pubblico dell’epoca non ancora abituato a osare troppo, sono fortemente sostenuti da Liberman, che li apprezza per la rappresentazione innovativa e, al tempo stesso, sensuale, della moda che rendono.
Corre l’epoca Anna Wintour e il temutissimo direttore, seguendo la scia dei suoi predecessori, ama circondarsi di talenti della fotografia, aprendo le porte ai nomi più quotati di questa forma d’arte. Annie Leibovitz, Steven Meisel, Arthur Elgort e Patrick Demarchelier, sono solo alcuni degli artisti che prendono parte all’avventura Vogue, affiancando celeberrimi maestri del calibro di Helmut Newton, Bruce Weber, Herb Ritts e Irving Penn.
Vantando una squadra così schierata, la testata è diventata una vetrina privilegiata per la fotografia di moda propriamente intesa, dando ampio respiro agli aspetti più autentici senza, però, tralasciare di evidenziare i tratti spettacolari. Il tutto, nel rispetto di una sofisticata resa illustrata, rappresentazione ultima di specifiche istanze sociali e culturali. 

martedì 18 dicembre 2012

PEOPLE_Schuberth e lo stilista-divo








Nel momento in cui si parla della nascita del made in Italy e della celeberrima sfilata del 12 febbraio 1951 nella Sala Bianca a Firenze, a firma di Giovanni Battista Giorgini, non si può non citare Emilio Federico Schuberth, sarto napoletano che ha affermato e legittimato la moda italiana nella sua ragione d’essere.
Il suo tratto distintivo, lo stesso che rimarca il suo stile, risiede nell’innato senso dello spettacolo e nella sublime conoscenza sartoriale, ereditata dalla scuola napoletana. Muove i suoi primi passi negli anni ’30 presso l’atelier Montorsi, dove si occupa del settore biancheria, ricorrendo all’utilizzo di raffinate combinazioni di seta e merletto. Nel 1938 decide di intraprendere la propria strada, seguendo una vocazione per la moda che diviene sempre più impellente: apre, così, un negozio di modisteria con la giovane moglie, in via Frattina. In men che non si dica le richieste delle sue clienti si moltiplicano a vista d’occhio, complice un sano passaparola, tanto da indurlo a inaugurare un atelier di alta moda in via Lazio. Non è passato nemmeno un anno che si trasferisce in via XX Settembre.
Il suo stile è unico: ama il lusso nel tessuto e nei ricami e possiede un’abilità innata nel mescolare tecniche e materiali. La sua, è una donna classica: vita sottile, busto importante, spalle rotonde, ma, al tempo stesso, anche molto romantica. La moda di Schuberth è fastosa, vi si fondono elementi ottocenteschi e hollywoodiani. Una caratteristica molto apprezzata da regine e star del cinema: celeberrimo e curioso l’aneddoto su Soraya, per la quale – in fuga dalla Persia con lo Scià – aveva preparato, in una sola notte, un guardaroba degno di un’imperatrice, per l’appunto. Cliente fisso è stato anche re Faruk d’Egitto, che ha vestito da Schuberth le sue mogli e le sue amanti. Per Maria Pia di Savoia ha invece realizzato una parte del corredo delle nozze. Ha vestito Brigitte Bardot e Martine Carol. È stato amato dalle soubrette, divenendo l’artefice degli abiti per il “gran finale” delle riviste musicali. Sono suoi gran parte degli abiti di Wanda Osiris, Elena Giusti, Silvana Pampanini, Valentina Cortese, Lucia Bosé, Silvana Mangano e Lorella De Luca. Sono state sue clienti anche Gina Lollobrigida e Sofia Loren.
Nel 1949 sfila a Palazzo Grassi nell’ambito del Festival di Venezia, mentre il suo atelier diviene il luogo privilegiato di frequentazioni di figurinisti e costumisti del calibro di Jon Guida, Costanzi, Pascali, Pellizzoni, Balestra, De Barentzen, Lancetti, Guido Cozzolino, Ata de Amgelis, Folco e Miguel Cruz. Non manca nemmeno il debutto sul grande schermo: nel film Era lui sì, sì di Metz e Marchesi del 1951, impersona se stesso mentre prova un abito all’esordiente Sofia Loren.
Agli eventi mondani, era solito presentarsi seguito da dodici indossatrici vestite con le sue creazioni. Amava sfoggiare gioielli, non tanto per esibizionismo quanto per calamitare l’attenzione dei media. Ha partecipato al popolare programma televisivo Il Musichiere sia come costumista che come protagonista, cantando Donna, cosa si fa per te.
Eclettico al punto giusto per non disdegnare ogni forma d’arte, nel 1957 rafforza la sua vocazione per la moda, siglando per il mercato americano e tedesco un accordo con Delia Biagiotti, madre della nota stilista Laura, per l’esportazione dei suoi modelli pronti.
Sensibile alla moda in tutte le sue forme d’espressione, decide di declinarla anche in inconfondibili note olfattive, firmando il profumo Schu-Schu, la cui campagna pubblicitaria porta la firma dell’indimenticabile René Gruau.
Nel 2011, nell’ambito della 67esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il docufilm fuori concorso “Schuberth – L’atelier della dolce vita” a firma del regista Antonello Sarno ne celebra l’estro e la grandezza, mostrandolo come uno dei personaggi chiave della storia della moda italiana, antesignano delle più contemporanee accezioni di stile. 

venerdì 14 dicembre 2012

ABOUT_Le copertine di Vogue







Inutile ogni presentazione per Vogue, il mensile di moda, fondato nel 1892 a New York da Arthur Baldwin Turnure e, nel 1909, divenuto di proprietà della Condé Nast, imponendosi nei decenni del XX secolo come una delle più prestigiose e autorevoli testate al mondo.
La copertina è sempre stata uno dei temi cruciali intorno al quale la rivista ha concentrato sforzi e professionalità, avvalendosi della collaborazione dei più grandi nomi della fotografia internazionale e aprendo così le porte a un fenomeno del tutto nuovo. Essa diviene il canale attraverso il quale attrarre l’attenzione dei potenziali lettori: da qui, l’importanza di realizzarla a dovere, senza lasciare nulla al caso, ma, al contrario, meravigliando ogni volta il pubblico con spirito critico e una comunicazione d’impatto, in grado di suscitare interesse e curiosità, di rimanere impressa nella memoria e divenire un oggetto da collezione.
Tra il 1892 e il 1909, quando Vogue era una gazzetta per l’aristocrazia newyorchese, le copertine utilizzavano in modo del tutto casuale fotografie, illustrazioni e stampe. Non vi era uno studio accurato dietro la sua realizzazione: bisognerà, infatti, aspettare l’avvento della Condé Nast perché le copertine subiscano un importante cambiamento. D’un tratto, esse diventano il canale principale e privilegiato per entrare in contatto con i lettori. Il nuovo editore comprende la loro importanza per la vendita, decidendo così di creare uno stile immediatamente riconoscibile. Condé Nast da subito impone copertine a colori e disegni, non fotografie, limitando il numero di artisti impiegati per le illustrazioni al fine di rendere più semplice per i lettori identificare la rivista. Decide, inoltre, di incorporare la parola “Vogue” nel design, eleggendo la rivista a vetrina d’eccellenza per l’espressione artistica d’avanguardia. A questo proposito, si avvale della collaborazione di talenti emergenti dell’Ecole Nationale des Beaux-Arts di Parigi, che fanno parte dei nuovi movimenti artistici, primi su tutti il Cubismo e l’Art Déco. Tra i principali nomi ingaggiati da Nast, figurano George Lepape e Eduardo Garcia Benito. Attraverso le copertine, Vogue esprime e promuove ogni tendenza artistica intrinsecamente valida, caratterizzata da quell’intangibile qualità che distingue tutti i contenuti della rivista.
Nei primi anni ’30, il dominio degli artisti francesi sulle copertine subisce un appannamento, complice uno stile che non permetteva il riconoscimento degli abiti indossati dalle donne raffigurate. Comincia così ad essere adottata una tendenza più fotografica, con illustrazioni ricche di dettagli. Fra gli artisti più adatti a questo tipo di cifra stilistica figurano Harriet Messerole, Douglas Pollard, William Bolin, Jean Pagès, Christian Bèrard e Carl Erikson. Quest’ultimo, che amava firmarsi Eric, da molti è ritenuto il principale rappresentante del periodo di transizione tra l’Era dell’Illustrazione e l’Era della Fotografia nelle copertine della rivista.
Il 1° luglio 1932 rappresenta una data emblematica per Vogue, che mostra in copertina una fotografia a colori di Steichen, raffigurante una ragazza in costume. Un avvenimento che segna in maniera decisiva il futuro della rivista, imprimendo la svolta verso un cambiamento graduale: le copertine da quel momento in poi, vengono guidate nella loro realizzazione dall’intuito dell’editor, che cerca il modo più efficace per attrarre l’attenzione del pubblico contemporaneo. La fotografia diviene sempre più un valido alleato su cui poter contare, complice l’incremento delle vendite dovute al suo utilizzo: nel 1938 sono pubblicate otto copertine con fotografie a colori; nel 1939 il numero sale a dodici, la metà delle copertine annuali. Le donne ritratte sono particolari e identificabili nel loro stile, caratterizzato da abiti di famosi stilisti: rendono così il legame tra Vogue e il commercio sempre più inscindibile. Fino agli anni ’60, le modelle ritratte trasmettono fascino ed eleganza, sono immortalate in un comportamento aristocratico da perfetta padrona di casa, con un’ottima posizione sociale. In seguito, complice l’emancipazione femminile, le modelle rappresentano donne libere, sensuali, meno orientate verso il romanticismo e l’atmosfera di casa di lusso, ma più rivolte all’espressione della propria identità. Il volto della modella è ritratto con particolare attenzione agli occhi e alla bocca. Lo sguardo è sempre rivolto a favore dell’obiettivo e le labbra danno un tocco sensuale all’immagine. Il trucco e la pettinatura assumono un’importanza fondamentale e l’art-director, gradualmente, si ritaglia un ruolo sempre più di spicco nella messa a punto di copertine emblematiche, dall’effetto immediato. L’immagine in primo piano si afferma definitivamente quale primaria cifra stilistica delle copertine di Vogue. Secondo la formula “guardami negli occhi”, così definita da fotografi ed editor, il volto della modella riempie quasi tutta la copertina, gli occhi sono grandi e le labbra sempre sorridenti, la bellezza femminile diviene protagonista assoluta. A completamento, le titolazioni degli articoli contenuti nel numero.  
Con l’epoca Anna Wintour, i primi piani dei volti vengono sostituiti da immagini a figura intera, che mettono in risalto abiti e accessori indossati dalle modelle, caratterizzate da un’aria moderna e naturale, tale da far immedesimare le lettrici. 
L’attenzione si è quindi spostata dalla bellezza tout court allo stile più propriamente detto, complice un’evoluzione lenta ma inevitabile della società che, dapprima, chiedeva l’identificazione precisa di una semantica estetica e, poi, la codificazione dell’eleganza, declinata nelle sue note più autentiche. Qualunque sia l’impostazione, però, nulla cambia per il valore intrinseco della rivista: seguire le tendenze sociali, culturali e di costume per condividerle con i suoi lettori e suggerire, nei limiti del possibile, significati, interpretazioni e visioni.